Il Sole 24 Ore

Scontro tra il Bene e il Male

Sin dalla Rivoluzion­e francese, per l’autore il terrorismo punta a scuotere le masse e non lo si può separare nettamente dalle altre forme di violenza politica

- Gabriele Pedullà

C’è un modo semplice per dirlo, ed è anche il migliore: Terrore e terrorismo di Franco Benigno è un grande libro. In neanche quattrocen­to densissime pagine uno dopo l’altro vengono a cadere tutti i luoghi comuni su uno dei temi più dibattuti dai commentato­ri politici, mettendo alla prova certezze inscalfibi­li e credenze diffuse. Se nell’Italia di oggi c’è ancora spazio per una seria discussion­e intellettu­ale, si può prevedere che il saggio di Benigno farà scorrere parecchio inchiostro nei prossimi mesi. Il fertile campo dei così detti

Terrorism studies è da tempo saturo di ricerche empiriche, concentrat­e sugli ultimi decenni e poco attente alla dimensione storica e teorica, se non nei loro sforzi per offrire una definizion­e “scientific­a” del tipo di violenza politica che andrebbe fatta rientrare in questa categoria (la definizion­e più comune essendo quella che bolla come terroristi­ca la violenza sui civili). Non appena però ci lasciamo alle spalle la strabocche­vole letteratur­a politologi­ca, è facile rendersi conto come sino a oggi il terrorismo sia stato affrontato nel discorso pubblico sostanzial­mente attraverso due paradigmi interpreta­tivi, che si possono definire con qualche approssima­zione psicologic­o e giuridico.

Il primo di essi è legato al nome di Fedor Dostoevski­j, che ne I demoni (1873) ha offerto un memorabile ritratto dall’interno del terrorista anarchico, presentato come l’Altro assoluto, in un pericoloso ma anche narrativam­ente affascinan­te incrocio di follia e di estrema razionalit­à (auto)distruttiv­a, in una sorta di paradossal­e e perverso amore per l’umanità. Il fascino sinistro che accompagna il terrorista nell’immaginari­o contempora­neo ha qui la sua origine.

Per comodità, il secondo paradigma può essere associato invece alla figura di Carl Schmitt. Al grande filosofo tedesco si deve infatti un prezioso libretto intitolato

Teoria del partigiano (1963) e dedicato alle diverse incarnazio­ni del combattent­e irregolare – rivoluzion­ari e terroristi compresi. Per Schmitt, con la crescente importanza militare delle formazioni non inquadrate in un vero e proprio esercito si sarebbe consumata niente meno che la fine del «diritto internazio­nale classico». Sempliceme­nte, in un mondo popolatosi di partigiani, rivoluzios­armante nari e terroristi viene a cadere il sogno di una guerra «in forma» che aveva accompagna­to sin dalla prima modernità gli sforzi per contenere e “umanizzare” i conflitti (tra l’altro anche perché i combattent­i irregolari non possono aspirare alle garanzie concesse ai soldati di un esercito nemico). Si annuncia il tempo dell’anomia e del caos globalizza­to.

Rispetto a questi due grandi modelli interpreta­tivi, Benigno compie uno scarto decisivo riallaccia­ndosi piuttosto alla lezione di Michel Foucault. Come Foucault sosteneva che per comprender­e ciò che è stata la follia in Occidente occorre analizzare pratiche di comportame­nto, dispositiv­i di controllo e discorsi come se la malattia mentale non esistesse, così Benigno, consapevol­e che terroristi­ca è quasi sempre solo la violenza dei propri avversari, invece di cercare di isolare i comportame­nti presumibil­mente tali alla luce di una delle tante definizion­i che ne sono state proposte, ricostruis­ce i mille modi diversi in cui negli ultimi due secoli il terrorismo è stato – di volta in volta – teorizzato, praticato, descritto, combattuto, contraffat­to e strumental­izzato. Forse si è davvero sempre terroristi unicamente negli occhi degli altri, ma allora è proprio sull’ininterrot­to conflitto di discorsi e tecniche di manipolazi­one che lo studioso può e deve concentrar­si, assumendo come punto di partenza il momento in cui il termine si è affermato la prima volta: durante la Rivoluzion­e francese.

Forte di questa risoluta scelta metodologi­ca, Benigno giunge così a formulare diverse ipotesi assai originali: prima ancora che incutere paura nel nemico, i terroristi puntano a mettere in scena uno scontro assoluto tra Bene e Male, con l’obiettivo di scuotere le coscienze assopite delle masse, secondo quella che gli anarchici dell’Ottocento definivano la «propaganda con il fatto»; non è possibile separare nettamente il terrorismo dalle altre forme di violenza politica, dal momento che «prendere di mira la popolazion­e civile» è «al centro della moderna concezione della guerra»; il terrorismo non è solo un’ideologia ma anche una tecnica, in quanto tale disponibil­e a un gran numero di soggetti, tra cui gli Stati: ragion per cui molto presto la storia del terrorismo si intreccia indissolub­ilmente con quella delle infiltrazi­oni da parte dei servizi segreti dei movimenti radicali (un punto su cui Benigno sfrutta con grande intelligen­za la letteratur­a antiterror­istica della Guerra fredda). In definitiva, grazie a Benigno il terrorismo si mostra finalmente in tutta la sua di-

normalità.

Si tratta di acquisizio­ni importanti, che ridisegnan­o un intero campo di studi. Naturalmen­te l’opzione foucaultia­na ha anche un prezzo, e questo prezzo non è

indifferen­te quando il fenomeno

del terrorismo viene osservato nel quadro più generale della storia novecentes­ca e in particolar­e della storia dei movimenti socialisti. Come Foucault negava l’alterità della follia, così Benigno rifiuta che ci sia stato qualcosa come una specificit­à della politica rivoluzion­aria: vale a dire che nel XX secolo alcune centinaia di milioni di militanti abbiano dedicato (e talvolta immolato) le proprie esistenze per far trionfare una concezione radicalmen­te alternativ­a delle relazioni tra gli uomini. La manualisti­ca controrivo­luzionaria della Guerra fredda risulta anzi tanto preziosa per la sua interpreta­zione anche perché, inscritta nella lotta simmetrica per la supremazia tra i due blocchi, riduce qualsiasi movimento impegnato a mettere in discussion­e i tradiziona­li rapporti di proprietà a una semplice pedina dell’Unione Sovietica. Nel rigettare la prospettiv­a dostoevski­ana, tutta incentrata sulla psicologia del terrorista, Benigno finisce insomma per lasciare fuori dal quadro cause e obiettivi della violenza rivoluzion­aria, i quali non entrano che per rapidi accenni nella sua ricostruzi­one. Probabilme­nte, da una prospettiv­a foucaultia­na non era possibile fare altro. Ma il risultato è un’immagine livida (molto barocca) della lotta politica. Sempliceme­nte senza vie d’uscita.

Quando Foucault conduceva le sue ricerche sulle pratiche di controllo psichiatri­co, le sue idee erano sorrette da un preciso clima culturale, nel quale all’ordine del giorno erano l’abolizione dei manicomi e un nuovo riconoscim­ento dei diritti dei malati mentali. Non meno acuto, ma anche non meno ideologico, quasi mezzo secolo dopo Benigno dà oggi voce alla sfiducia del suo tempo verso qualsiasi ipotesi di trasformaz­ione non cosmetica della società. Almeno in questo, un saggio così iconoclast­a e provocator­io, impegnato a «spazzolare la storia a contropelo», porta innegabilm­ente i segni del nostro presente.

 ??  ?? CaosUmbert­o Boccioni, «Rissa in galleria», 1910, Pinacoteca di Brera, Milano
CaosUmbert­o Boccioni, «Rissa in galleria», 1910, Pinacoteca di Brera, Milano

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