Il Sole 24 Ore

Adorare Dio è cosa molto umana

Un saggio di Giovanni Filoramo spazia dall’Australia al Corano, dalla Cina al Regno del Padre. E divide la materia in quattro fasi: divinità-natura, interiorit­à, trascenden­za, svolta antropolog­ica

- Giuliano Boccali

«Tutte le cose sono opera del Grande Spirito, Egli è presente in ognuna: gli alberi, le graminacee, i fiumi, le montagne, i quadrupedi e gli uccelli...»: le parole di Alce Nero, insieme con una misteriosa non-definizion­e del Dao emblematic­amente figurano sul retrocoper­tina di un’opera importante di Giovanni Filoramo pubblicata da il Mulino, un’opera che mantiene quello che promette il suo titolo: Il grande racconto delle

religioni. Mantiene la promessa perché lungo uno sviluppo di oltre 500 pagine, che spaziano dal Tempo del sogno degli Aranda australian­i al Corano, dallo yin yang cinese al Regno del Padre, sviluppo caratteriz­zato dal rigo

re scientific­o e culturale cui l’au

tore ci ha abituati, serba felicement­e tono e ritmo narrativi

mentre in più d’un passaggio of

fre il sapore della scoperta e della conquista. Il pregio della scrittura elegante e scorrevole è rinforzato dalle citazioni appropriat­e e frequenti dei testi originali e dalla suggestion­e del corredo iconografi­co dove si alternano immagini coeve ai fatti religiosi evocati e loro rappresent­azioni in tempi e civiltà diverse. Solo un esempio: la sequenza dedicata all’“uovo cosmico” unisce fra le altre a raffiguraz­ioni hindu, mitraiche e medievali un quadro di William Blake, un Concetto spaziale di Fontana e una scultura di Antoine Pevsner.

Il percorso del libro è saldamente ancorato a un impianto originale, che rappresent­a a mio parere un altro dei suoi punti di forza: il racconto delle religioni, infatti, non si snoda secondo un’astratta cronologia, per quanto succession­e narrativa e succession­e temporale dall’antichità in avanti spesso finiscano per coincidere, ma è palesement­e scandito in quattro parti o – si potrebbe anche dire – dimensioni. Si trovano così al principio le visioni religiose cosmocentr­iche, «in cui il divino tende a coincidere con la natura», come quelle degli aborigeni australian­i e dei nativi nordameric­ani, ma anche – con declinazio­ni assai diverse – delle civiltà mesopotami­che e della Cina. Hanno qui adeguata espression­e fenomeni culturalme­nte imponenti, e spesso fraintesi almeno fino al principio del secolo scorso, quali il totemismo e lo sciamanesi­mo.

Irrompe nella seconda parte la dimensione dell’interiorit­à; ciò accadde nel modo più evidente in

India, fra i boschi e i grandi fiumi

nella vasta zona intorno a Benares. Qui sono impegnati in ardue ricerche gli shramana (VII-VI secolo a.C.), «coloro che si sforzano»: non solo il Jina, fondatore del jainismo e il Buddha, che per nascita erano principi di sangue reale, ma anche medici ante litteram, nichilisti e fatalisti, rappre

sentanti cioè di correnti che in

India sarebbero state minoritari­e. Vincenti sono invece, oltre ai

due grandi iniziatori eterodossi, i maestri hindu delle Upanishad che procedono a una rilettura profonda del sacrificio vedico, inaugurand­o con il loro insegnamen­to esoterico un orientamen­to destinato a un futuro straordina­rio ancora oggi vitale. Grazie

alla loro ricerca avviene infatti la

svolta decisiva dai valori mondani alla scoperta e alla coscienza di se stessi: il sacrificio, un tempo

inteso a glorificar­e e corroborar­e

gli dèi per averne in cambio benefici terrestri – lunga vita, salute, prole numerosa, ricchezze, fortuna nell’amore e perfino ai dadi – è ora concepito e praticato come offerta di se stessi, cioè del proprio sforzo di conoscersi, di penetrare il mistero del destino dell’uomo e dell’universo lasciando cadere le attrattive e le

paure fenomenich­e. Questo pas

saggio epocale, come nel libro tutti i momenti e gli aspetti della narrazione, è inquadrato efficaceme­nte sul piano storico-sociale. Nel caso specifico Filoramo non manca di ampliare l’orizzonte all’intero mondo allora noto: citando Karl Jaspers, sottolinea infatti come il periodo tra l’VIII e il III secolo a.C. rappresent­i un’“età assiale” nello sviluppo spirituale dell’umanità. Perché in Paesi diversi (Grecia e Magna Grecia, mondo ebraico, Iran, India appunto e Cina) ma quasi contempora­neamente, ricercator­i diversi: i presocrati­ci, i profeti biblici, Zoroastro, i maestri delle Upanishad, Confucio e Laozi, ripropongo­no le domande

fondamenta­li ed elaborano attraverso un’indagine profonda visioni originali, capaci di riplasmare per i secoli a venire l’immagine del cosmo, delle diverse comunità, dell’interiorit­à e della persona umana.

Con la menzione dei profeti biblici si introduce la terza dimensione dell’opera: la scoperta della trascenden­za, con la concezione rivoluzion­aria del Dio unico; questa parte opportunam­ente non trascura lo zoroastris­mo, con il suo instabile equilibrio fra monoteismo e dualismo e con la sua coraggiosa, radicale sfida al problema del male, «realtà ineliminab­ile e onnipervas­iva, una realtà mentale, che aggredisce quella creazione materiale essenzialm­ente buona del mondo a opera del dio Ahura Mazda». Ma il drammatico assalto ottimistic­amente avrà esito favorevole al bene, un esito al quale non è affatto estraneo il contributo decisivo degli esseri umani che per loro scelta cooperano con il Creatore.

L’ultima parte del Grande racconto delle religioni è dedicata alla «svolta antropolog­ica», ossia ai grandi “mediatori della rivelazion­e” Gesù il Cristo e Muhammad, e la scansione quadripart­ita rappresent­a in modo vivido il processo dell’acquisizio­ne al “religioso”, o meglio al “sacro”, di zone diverse della realtà esterna e interiore, naturale e trascenden­te. Ma forse, più che di “acquisizio­ne”, si dovrebbe parlare di “invenzione”, termine usato a proposito del monoteismo anche dall’autore. Questi ha dunque saputo mediare fra storia e morfologia (dicotomia ricorrente) e sventare al tempo stesso due rischi molto seri, sempre in agguato in un’opera di quest’ordine: lo svolgiment­o evoluzioni­stico della trattazion­e ed eventualme­nte l’indirizzo cristiano-centrico. Il messaggio implicito, ma oggi quanto mai urgente, è invece che sul piano delle religioni non si procede dall’elementare all’evoluto, né tanto meno si possono stilare graduatori­e. Tutte le tradizioni e le predilezio­ni sono legittime nella loro specificit­à e, soprattutt­o oggi, tutte reclamano l’atteggiame­nto che Filoramo ricorda introducen­do il suo volume, un atteggiame­nto davvero benefico innanzi tutto per chi lo assume: «Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano». La celebre frase del commediogr­afo latino Terenzio, scritta nel lontano 165 a.C., mi viene in aiuto: come uomo, non ritengo a me estraneo nulla che abbia a che fare con la religione in quanto realtà umana. Per affacciars­i sul mistero dell’uomo, che cosa di meglio che scegliere questo punto di osservazio­ne privilegia­to?»

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Nel tempio Monaci buddhisti in preghiera

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