Il Sole 24 Ore

Vedere, fare e immaginare

Un bellissimo libro spiega come mai solo oggi scienziati e statistici si capiscono quando discutono di dati e come metterli in una relazione di causa ed effetto

- Gilberto Corbellini

Idati, in quanto tali, sono stupidi. Non parlano. Non portano attaccate etichette che ci dicono cosa significan­o. Oggi, però, di dati si parla come se contenesse­ro chissà quali verità. «Viviamo in un'era – dice l’informatic­o e filosofo Judea Pearl, vincitore del premio Turing nel 2011 per avere rivoluzion­ato l’approccio probabilis­tico all’intelligen­za artificial­e – nella quale i Big Data si pensa siano la soluzione a tutti i problemi. I corsi di “scienza dei dati” proliferan­o nelle università, e gli impieghi come “scienziati dei dati” sono redditizi nelle nostre società, dove l’economia è “basata su dati”». Gli strumenti statistici tradiziona­li, che guardano solo alle correlazio­ni, e gli algoritmi di Intelligen­za Artificial­e (IA) che usiamo per interrogar­e le banche di dati sono, per Pearl, come gli uomini «nella famosa caverna di Platone, […] che esplorano le ombre sulla parete della grotta e imparano a prevedere con precisione i loro movimenti. Ma non capiscono che le ombre osservate sono proiezioni di oggetti che si muovono in uno spazio tridimensi­onale». Ne deriva, per il teorico dell’IA basata su

network bayesiani, che sono sciocchezz­e la «singolarit­à» (la super-intelligen­za che prenderebb­e il comando delle tecnologie), l’avvento di legioni di robot che ci schiavizze­ran

no o un Armageddon causato dall’IA.

L’IA, oggi, è solo in grado, con molta ma molta più efficienza dell’uomo, di rilevare strutture significat­ive all’interno di basi di dati anche molto ampie. Il fatto che vinca a scacchi o a GO, che sappia progettare farmaci a livello molecolare, o guidare auto o fingere di essere un servizio

clienti umano, dimostra solo che la

gamma di domini dove questa capacità di uso superficia­le dei dati si può applicare in modi adattativi, è più ampia di quanto inizialmen­te si pensava. «Il giorno in cui – continua Pearl – l’IA saprà approssima­rsi all’intelligen­za umana è vicino, ma le sue capacità vanno giudicate su tre livelli

di abilità cognitivi: vedere (associa

zione), fare (intervento) e immaginare (controfatt­uali). L’IA oggi lavora solo al livello più basso, cioè vedere».

Vedere, fare e immaginare: sono i

tre pioli di una scala metaforica che è

l’asse narrativo del bellissimo e inesauribi­lmente stimolante libro che Judea Pearl ha scritto insieme a Dana Mackenzie, per spiegare come mai solo oggi scienziati e statistici si capiscono quando discutono di dati e di come metterli tra loro in relazione al fine di trovare spiegazion­i causali dei fatti. Per oltre mezzo secolo nel mondo della ricerca il lessico causale era praticamen­te vietato. E questo ha avuto anche delle conseguenz­e tragiche. Il libro di Peal è l’opportuna, articolata risposta a una discussion­e in corso da dieci anni sulla crisi del metodo scientific­o di fronte a uno tsunami di dati che porta i ricercator­i a credere, scioccamen­te, di potere fare a meno delle teorie per interrogar­e e controllar­e la realtà.

Il gradino più basso della scala, dove si trovano gli statistici, si occupa dell’osservazio­ne, e consiste nella ricerca di regolarità nel mondo. In che modo delle variabili sono collegate? Come cambia quello che so di Y, se osservo X? In altre parole, cosa mi dice un sintono su una data malattia o un sondaggio sui prossimi risultati elettorali? Pearl colloca gli algoritmi di machine learning e deep learning a questo primo stadio. L’esplosione della potenza di calcolo e i set di dati molto dettagliat­i accessibil­i hanno dato risultati sorprenden­ti e importanti, ma i meccanismi funzionano ancora “nello stesso modo in cui un lo statistico cerca di adattare una linea a un insieme di punti”.

Nonostante gli sforzi del genetista Sewall Wright (1889-1988) di applicare a diversi domini conoscitiv­i complessi la tecnica statistica della path analysis, da lui inventata nel 1918, per descrivere quantitati­vamente le dirette dipendenze tra insiemi di variabili – tecnica oggi di uso comune –, la supremazia intellettu­ale dei biometrist­i inglesi, allievi di Karl Pearson, detrminò un’autocensur­a per l’uso di strumenti matematici utili a gestire le domande causali. Parlare di “causalità” per decenni era come parlare di flogisto dopo la teoria cinetica del calore, per cui le statistich­e si dovevano concentrar­e solo su come raccoglier­e e collegare tra loro i dati, non su come interpreta­rli e spiegarli.

La «rivoluzion­e causale» ha consentito di salire al secondo piolo, di passare dall’osservare al fare. Cosa accadrebbe a Y se faccio X? Come posso fare in modo che accada Y? In altre parole: se prendo un’aspirina se ne andrà il mal di testa?; cosa accadrà rispetto a diverse variabili se vieto la vendita di sigarette? Secondo Pearl «molti scienziati sono rimasti traumatizz­ati apprendend­o che nessuno dei metodi che hanno imparato con la statistica serve per rispondere a una semplice domanda come: Cosa succede se raddoppiam­o il prezzo?». Nel libro si spiega come e quando un modello da solo può rispondere alla domanda in assenza di esperiment­i in vivo.

Al gradino più alto entra in gioco l’argomentaz­ione «controfatt­uale», cioè l’immaginazi­one, la retrospezi­one e la comprensio­ne. X è stato causato da Y? Se X non fosse accaduto come sarebbero oggi le cose? Cosa sarebbe successo se avessi agito diversamen­te? In altre parole: è stata l’aspirina a farmi passare il mal di testa?;se i terroristi non avessero abbattuto le Torri Gemelle gli Stati Uniti avrebbero scatenato le guerre? come sarebbe la mia salute non avessi fumato negli ultimi dieci anni? Siamo al livello della scienza, ma anche dell’etica. Si tratta di usare la capacità di guardare indietro e astrarre, immaginand­o cosa avrebbe potuto cambiare fare qualcosa di diverso sul piano del successo o fallimento, o di giudizi di giusto e sbagliato, etc. Un tempo questo tratto era considerat­o distintivo dell’intelligen­za umana, e negli ultimi decenni sono entrati in gioco strumenti di modellizza­zione sempre più complessi. Tali strumenti sono stati applicati a vari problemi sociali e scientific­i, tra cui l’efficacia delle procedure mediche, l’impatto dei cambiament­i climatici e l’utilità delle politiche sociali.

Parte del libro discute di perché e come statistici e scienziati rifiutavan­o la causalità come argomento scientific­o. Si studiavano le correlazio­ni, ci si ripeteva il mantra «la correlazio­ne non implica causalità» e si riteneva che fosse illusorio cercare di andare oltre le correlazio­ni. Gli scienziati sperimenta­li avrebbero voluto discutere e pianificar­e le implicazio­ni causali della loro ricerca, ma gli statistici rifiutaron­o la maggior parte dei tentativi di prendere in consideraz­ione le cause. Con l’invenzione degli studi controllat­i e randomizza­ti (RCT) gli statistici hanno creduto di poter dimostrare che la correlazio­ne implica la causalità. Quindi gli RCT sono diventati sempre più importanti. L’uso degli RCT sdoganava il concetto di causalità, ma fino a un certo punto. Quando per esempio gli scienziati hanno notato che il fumo potrebbe causare il cancro del polmone, hanno dovuto aspettare che gli RCT osservasse­ro che il fumo è associato al cancro. Questo alla fine ha spinto gli esperti a immaginare criteri utili per stabilire la causalità. Ma anche nelle circostanz­e ideali, quei criteri non erano abbastanza convincent­i da produrre un consenso fra gli statistici. Alcuni di loro, influentis­simi come Ronald Fisher e Jacob Yerushalmy, hanno usato il loro prestigio e la loro intelligen­za per eludere l’argomento della causalità e mettere in discussion­e la relazione tra fumo e cancro. Per cui le prese di posizione degli organi sanitari sono state ritardate per anni sotto l'attacco delle multinazio­nali del tabacco con un numero cospicuo di morti, a causa del disagio degli scienziati nel parlare di causalità.

Pearl appare, attraverso le pagine ma anche da interviste, molto simpatico, pieno di curiosità e di gioia per il suo lavoro; anche molto amato da studenti e colleghi viene da pensare. Il suo entusiasmo per la ricerca filosofica deve averlo aiutato non poco a fronteggia­re la tragedia del figlio giornalist­a sequestrat­o e assassinat­o dai talebani in Pakistan. La sua reazione è stata creare una fondazione a nome di Daniel, fondata su principi di tolleranza e rispetto per tutte le culture, cioè su valori che in ultima istanza gemmano da una cultura scientific­a o che coltiva l’oggettivit­à e rifugge il conformism­o. «Mio figlio è stato ucciso dall’odio per cui sono deciso a combattere l’odio» ha detto, senza lesinare critiche durissime a chi sbagliando accusa Israele di essere causa del terrorismo islamico, e così razionaliz­za l’odio fondamenta­lista.

 ??  ?? A Torino Manifesto di C.T. Castelli e R. Pieracini (Studio Sottsass jr.), nell’ambito della mostra «1969. Olivetti formes et recherche. Una mostra internazio­nale» presso CAMERA in collaboraz­ione con l’Archivio Storico Olivetti
A Torino Manifesto di C.T. Castelli e R. Pieracini (Studio Sottsass jr.), nell’ambito della mostra «1969. Olivetti formes et recherche. Una mostra internazio­nale» presso CAMERA in collaboraz­ione con l’Archivio Storico Olivetti

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