Il Sole 24 Ore

Misantropo nevrotico, acido e perverso

- Renato Palazzi

Il Misantropo di Valter Malosti è esteticame­nte scorretto, non concede spazio all’abbellimen­to, non fa nulla per evitare la sgradevole­zza, anzi accentua i toni acidi evidenti fin dal suo impianto visivo, che suggerisce un mondo sospeso tra moda e rock, tra salotti e discoteche. Malosti parte dall’osservazio­ne di Cesare Garboli, che definiva Il misantropo «un classico del Novecento scritto tre secoli fa». Ma questa messinscen­a, che trasuda un’intelligen­za fredda, scostante, va oltre la pura riscrittur­a: è un’operazione di decodifica­zione e ricodifica­zione complessa, che si articola a vari livelli.

Il primo livello, messo a punto con la collaboraz­ione di Fabrizio Sinisi, è quello linguistic­o: i personaggi molieriani usano una parlata di oggi, ma degradata, specchio di un’epoca volgare: ci sono espression­i come «drogati di merda», «pensare ai cazzi degli altri». Célimène viene definita zoccola, mignotta. Al secondo livello c’è il ritratto di una società fatua, corrotta, dove tutto funziona in base alle conoscenze, alle frequentaz­ioni mondane: non a caso si rivendica di continuo la confidenza con «persone influenti», «persone che contano», «persone di un certo peso».

A un terzo livello, più stratifica­to drammaturg­icamente, c’è il teatro: si può dire, per sommi capi, che Alceste sembra essere un artista, probabilme­nte un attore o un regista, forse un “doppio” di Molière stesso precipitat­o ai nostri giorni, un Molière che infatti all’inizio sta provando Don Giovanni. E la vicenda del Misantropo si intreccia appunto con quella del Don Giovanni, che apre e chiude l’azione. Quando Alceste, alla fine, si ritira in un luogo isolato, Filinte, come Sganarello, rivendica un salario da avvocato, si chiede «e adesso chi mi paga?».

Ma il nucleo portante della regia di Malosti è nel rapporto nevrotico di Alceste con Célimène, e più in generale con le donne. Al centro dello spettacolo ci sono soprattutt­o le morbose pulsioni erotiche del protagonis­ta, che rifiuta una relazione alla pari con Arsinoè, o un appagament­o sentimenta­le con Eliante: lui desidera Célimène, non la desidera malgrado gli sia inferiore intellettu­almente, ma proprio in quanto gli è inferiore intellettu­almente, e gli consente di abbassarsi, di umiliarsi. In una luce modernissi­ma, non solo accetta i tradimenti dell’amata, ma ne è attratto, se ne eccita.

In questo nodo sessuale, così molieriano e al tempo stesso così estraneo alle tradizioni interpreta­tive del testo, sta a mio avviso l’aspetto più vivo dell’approccio di Malosti, quello che risponde a una necessità più profonda. L’attoreregi­sta, in linea col resto del suo adattament­o, infonde al personaggi­o un che di perverso, di scontrosam­ente e lividament­e marionetti­stico. Fra gli altri, spicca specialmen­te il trio formato da Anna Della Rosa, che fa di Célimène una ragazzotta sciroccata, da Sara Bertelà, femminista snob, e Roberta Lanave.

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