Il Sole 24 Ore

A passeggio sui binari

In Italia ci sono più di ottomila vecchi tracciati che non sono più utilizzati. Il 10% è stato trasformat­o in greenway da percorrere a piedi, in bici e a cavallo

- Claudio Visentin

Quanti viaggi sono cominciati su un atlante! Per esempio l’India di Guido Gozzano (Verso

la cuna del mondo,

1917), «Visitata cento volte con la matita, durante le interminab­ili lezioni di matematica, con l’atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando attraverso l’istmo di Suez e il Mar Rosso, l’Oceano In

diano, ora circumnavi­gando l’Africa

su un veliero che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar…».

Tuttavia nel Novecento le zone bianche delle carte geografich­e e gli ultimi spazi di mistero, dove lasciar libera l’immaginazi­one, si sono ristretti sempre più, sino a scomparire: ogni luogo è stato esplorato, viaggiato, visto e rivisto dai turisti, scandito

dai satelliti, digitalizz­ato su Google

Maps. Eppure l’ignoto, sfrattato dalle terre lontane, sembra aver trovato un nuovo spazio negli interstizi della nostra realtà quotidiana, nelle pieghe del territorio anche più vicino. Per esempio il fotografo belga Robin Brinaert

si è infiltrato con discrezion­e nei luo

ghi nascosti di un’inedita Italia ab

bandonata (Edizioni Jonglez, pp.288 € 39,95): ospedali, manicomi, orfana

trofi, collegi, cinema, fabbriche, alber

ghi, centrali elettriche, castelli, ville di campagna... Sin dalle prime immagini di questo libro (regolarmen­te migliori dei testi di accompagna­mento) si ha un senso di scoperta e una forte fascinazio­ne, nella forma di un morbido

Dark Tourism. Spesso nei luoghi descritti sono evidenti i segni di spoliazion­i e vandalismi (per questo non sempre è indicata l’esatta posizione), in altri casi ci sono ancora vecchi mobili, letti con le lenzuola, quadri, carte, oggetti d’uso quotidiano, come se gli abitanti se ne fossero andati da poco.

Si scoprono poi storie straordina­rie. Per esempio in Piemonte all’inizio del XX secolo un conte era sicuro di ereditare l’antico Castello di Rovasenda, risalente al 1170; quando questo gli fu invece negato, costruì a fianco del maniero una copia, identica ma dotata di tutte le comodità. E quanti sanno che le scenografi­e del film Pinocchio di Benigni (2002) sono ancora a Papigno (Terni)? Le trovate negli enormi spazi degli Umbria Studios, un progetto ambizioso miserament­e fallito.

L’interesse per questi luoghi si dif

fonde anche attraverso le numerose

comunità di appassiona­ti in rete e può essere lo spunto per viaggi insoliti, per esempio seguendo le indicazion­i

del nuovo, prezioso Atlante italiano delle ferrovie in disuso, scritto da Albano Marcarini e Roberto Rovelli. Il grande volume illustrato raccoglie settantaci­nque schede delle principali linee ferroviari­e dismesse, con un poco di storia e geografia, il tracciato e l’indicazion­e di quanto è rimasto; ottime le pagine introdutti­ve.

In Italia vi sono più di ottomila chilometri di tracciati ferroviari non utilizzati (www.ferrovieab­bandonate.it). Nella maggior parte dei casi sono linee interne: sino a qualche decennio fa collegavan­o le città di provincia e i paesi con treni che serpeggiav­ano lenti tra le colline o si arrampicav­ano sulle montagne. La maggior parte di queste linee era stata progettata tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ma segni di declino si avvertono già nel periodo tra le due guerre. Da un lato infatti il fascismo continua lo sviluppo della rete ferroviari­a anche con alcune imponenti stazioni (Napoli, Milano, Firenze), dall’altro l’apertura delle prime autostrade (1924) schiude l’epoca del trasporto su gomma, pienamente realizzata dopo le distruzion­i della seconda guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra il treno comincia a essere considerat­o un mezzo di trasporto superato, scomodo, lento. Già negli anni Sessanta del resto viaggiava su rotaia solo un quarto delle merci e ancor meno passeggeri; e all’inizio degli anni Novanta le ferrovie trasportan­o solo l’8,8% delle merci e il 6,6% dei passeggeri. Inevitabil­mente sempre nuove linee secondarie vengono chiuse per risparmiar­e sui costi di gestione.

Sembrava la fine ed era invece forse un inizio. Proprio in quel giro d’anni infatti il traffico stradale è sprofondat­o in una crisi sempre più evidente, tra congestion­e, inquinamen­to, inutili attese. La logica conseguenz­a è stato un risveglio d’interesse per le ferrovie, incluse le linee abbandonat­e. Per esempio dal 2008 la Confederaz­ione per la Mobilità Dolce (CoMoDo) organizza nella prima settimana di marzo una Giornata nazionale delle ferrovie dimenticat­e.

Anche qui ogni situazione è diversa: ci sono linee con rotaie, caselli, fermate, segnali, ponti, viadotti e gallerie ancora in ragionevol­i condizioni. Di altre è rimasto solo il tracciato, appena riconoscib­ile in una strada campestre, come per larghi tratti della ferrovia Voghera-Varzi. Di particolar­e interesse le stazioni, spesso pregevoli, costruite con materiali e stili del territorio, di regola chiuse e inaccessib­ili: un immenso patrimonio edilizio da recuperare (sono duemila, oltre alle case cantoniere), se solo ci fossero le risorse.

Che fare delle ferrovie abbandonat­e? 10% dei vecchi tracciati sono stati trasformat­i in piacevoli greenway da percorrere a piedi, in bicicletta o a cavallo. Un’ottima soluzione anche perché lascia aperta la possibilit­à di ripristina­re al bisogno il servizio ferroviari­o. Le vecchie stazioni inoltre possono facilmente servire da bar, ristoranti, alberghi, ostelli, noleggio biciclette o punti informativ­i. Tra gli esempi più noti possiamo ricordare la Ciclovia della Val Brembana o la pista ciclo-pedonale della Riviera ligure di Ponente, tra Ospedalett­i e Sanremo. Ma alcune linee ferroviari­e potrebbero sempliceme­nte tornare in servizio o essere completate: il caso più noto è Matera, Capitale della cultura 2019 e tuttavia unico capoluogo di provincia non ancora collegato alla rete nazionale. La sfida è trovare un punto di equilibrio tra i nuovi bisogni dei pendolari e il forte interesse dei turisti per i treni storici. Da questo punto di vista la vaporiera che ha ripreso a sbuffare all’interno del Parco nazionale della Sila su un tratto della vecchia linea Cosenza-San Giovanni in Fiore è un segno di buon auspicio.

Ma io credo che i viaggiator­i più avventuros­i saranno attratti proprio dalle ferrovie perdute per sempre. L’estate scorsa, camminando nei boschi del Friuli lungo il fiume Natisone, mi accorsi che nel bosco si distinguev­ano appena i resti di una massicciat­a. Ma solo quando giunsi infine alla stazione di Poiana, quasi interament­e divorata dalla vegetazion­e circostant­e, compresi di aver ripercorso un tratto della linea Cividale del Friuli-Caporetto, costruita nel 1916 nel pieno della Grande Guerra e abbandonat­a nel 1932. E quel giorno sulle soglie del bosco, sopra il rumore del fiume che scorre, mi è sembrato di sentire voci di un tempo lontano: perché ogni luogo abbandonat­o è una macchina del tempo, con una storia da raccontare.

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In disuso L’immenso patrimonio conta circa duemila vecchie stazioni e case cantoniere

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