A passeggio sui binari
In Italia ci sono più di ottomila vecchi tracciati che non sono più utilizzati. Il 10% è stato trasformato in greenway da percorrere a piedi, in bici e a cavallo
Quanti viaggi sono cominciati su un atlante! Per esempio l’India di Guido Gozzano (Verso
la cuna del mondo,
1917), «Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica, con l’atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando attraverso l’istmo di Suez e il Mar Rosso, l’Oceano In
diano, ora circumnavigando l’Africa
su un veliero che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar…».
Tuttavia nel Novecento le zone bianche delle carte geografiche e gli ultimi spazi di mistero, dove lasciar libera l’immaginazione, si sono ristretti sempre più, sino a scomparire: ogni luogo è stato esplorato, viaggiato, visto e rivisto dai turisti, scandito
dai satelliti, digitalizzato su Google
Maps. Eppure l’ignoto, sfrattato dalle terre lontane, sembra aver trovato un nuovo spazio negli interstizi della nostra realtà quotidiana, nelle pieghe del territorio anche più vicino. Per esempio il fotografo belga Robin Brinaert
si è infiltrato con discrezione nei luo
ghi nascosti di un’inedita Italia ab
bandonata (Edizioni Jonglez, pp.288 € 39,95): ospedali, manicomi, orfana
trofi, collegi, cinema, fabbriche, alber
ghi, centrali elettriche, castelli, ville di campagna... Sin dalle prime immagini di questo libro (regolarmente migliori dei testi di accompagnamento) si ha un senso di scoperta e una forte fascinazione, nella forma di un morbido
Dark Tourism. Spesso nei luoghi descritti sono evidenti i segni di spoliazioni e vandalismi (per questo non sempre è indicata l’esatta posizione), in altri casi ci sono ancora vecchi mobili, letti con le lenzuola, quadri, carte, oggetti d’uso quotidiano, come se gli abitanti se ne fossero andati da poco.
Si scoprono poi storie straordinarie. Per esempio in Piemonte all’inizio del XX secolo un conte era sicuro di ereditare l’antico Castello di Rovasenda, risalente al 1170; quando questo gli fu invece negato, costruì a fianco del maniero una copia, identica ma dotata di tutte le comodità. E quanti sanno che le scenografie del film Pinocchio di Benigni (2002) sono ancora a Papigno (Terni)? Le trovate negli enormi spazi degli Umbria Studios, un progetto ambizioso miseramente fallito.
L’interesse per questi luoghi si dif
fonde anche attraverso le numerose
comunità di appassionati in rete e può essere lo spunto per viaggi insoliti, per esempio seguendo le indicazioni
del nuovo, prezioso Atlante italiano delle ferrovie in disuso, scritto da Albano Marcarini e Roberto Rovelli. Il grande volume illustrato raccoglie settantacinque schede delle principali linee ferroviarie dismesse, con un poco di storia e geografia, il tracciato e l’indicazione di quanto è rimasto; ottime le pagine introduttive.
In Italia vi sono più di ottomila chilometri di tracciati ferroviari non utilizzati (www.ferrovieabbandonate.it). Nella maggior parte dei casi sono linee interne: sino a qualche decennio fa collegavano le città di provincia e i paesi con treni che serpeggiavano lenti tra le colline o si arrampicavano sulle montagne. La maggior parte di queste linee era stata progettata tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ma segni di declino si avvertono già nel periodo tra le due guerre. Da un lato infatti il fascismo continua lo sviluppo della rete ferroviaria anche con alcune imponenti stazioni (Napoli, Milano, Firenze), dall’altro l’apertura delle prime autostrade (1924) schiude l’epoca del trasporto su gomma, pienamente realizzata dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra il treno comincia a essere considerato un mezzo di trasporto superato, scomodo, lento. Già negli anni Sessanta del resto viaggiava su rotaia solo un quarto delle merci e ancor meno passeggeri; e all’inizio degli anni Novanta le ferrovie trasportano solo l’8,8% delle merci e il 6,6% dei passeggeri. Inevitabilmente sempre nuove linee secondarie vengono chiuse per risparmiare sui costi di gestione.
Sembrava la fine ed era invece forse un inizio. Proprio in quel giro d’anni infatti il traffico stradale è sprofondato in una crisi sempre più evidente, tra congestione, inquinamento, inutili attese. La logica conseguenza è stato un risveglio d’interesse per le ferrovie, incluse le linee abbandonate. Per esempio dal 2008 la Confederazione per la Mobilità Dolce (CoMoDo) organizza nella prima settimana di marzo una Giornata nazionale delle ferrovie dimenticate.
Anche qui ogni situazione è diversa: ci sono linee con rotaie, caselli, fermate, segnali, ponti, viadotti e gallerie ancora in ragionevoli condizioni. Di altre è rimasto solo il tracciato, appena riconoscibile in una strada campestre, come per larghi tratti della ferrovia Voghera-Varzi. Di particolare interesse le stazioni, spesso pregevoli, costruite con materiali e stili del territorio, di regola chiuse e inaccessibili: un immenso patrimonio edilizio da recuperare (sono duemila, oltre alle case cantoniere), se solo ci fossero le risorse.
Che fare delle ferrovie abbandonate? 10% dei vecchi tracciati sono stati trasformati in piacevoli greenway da percorrere a piedi, in bicicletta o a cavallo. Un’ottima soluzione anche perché lascia aperta la possibilità di ripristinare al bisogno il servizio ferroviario. Le vecchie stazioni inoltre possono facilmente servire da bar, ristoranti, alberghi, ostelli, noleggio biciclette o punti informativi. Tra gli esempi più noti possiamo ricordare la Ciclovia della Val Brembana o la pista ciclo-pedonale della Riviera ligure di Ponente, tra Ospedaletti e Sanremo. Ma alcune linee ferroviarie potrebbero semplicemente tornare in servizio o essere completate: il caso più noto è Matera, Capitale della cultura 2019 e tuttavia unico capoluogo di provincia non ancora collegato alla rete nazionale. La sfida è trovare un punto di equilibrio tra i nuovi bisogni dei pendolari e il forte interesse dei turisti per i treni storici. Da questo punto di vista la vaporiera che ha ripreso a sbuffare all’interno del Parco nazionale della Sila su un tratto della vecchia linea Cosenza-San Giovanni in Fiore è un segno di buon auspicio.
Ma io credo che i viaggiatori più avventurosi saranno attratti proprio dalle ferrovie perdute per sempre. L’estate scorsa, camminando nei boschi del Friuli lungo il fiume Natisone, mi accorsi che nel bosco si distinguevano appena i resti di una massicciata. Ma solo quando giunsi infine alla stazione di Poiana, quasi interamente divorata dalla vegetazione circostante, compresi di aver ripercorso un tratto della linea Cividale del Friuli-Caporetto, costruita nel 1916 nel pieno della Grande Guerra e abbandonata nel 1932. E quel giorno sulle soglie del bosco, sopra il rumore del fiume che scorre, mi è sembrato di sentire voci di un tempo lontano: perché ogni luogo abbandonato è una macchina del tempo, con una storia da raccontare.