Mio padre, i datteri e la cometa che guida i Re Magi
In queste notti invernali la presenza di una cometa battezzata dagli astronomi 46P/Wirtanen - niente più di un grumo luminoso con la coda apparentemente nascosta - ci assicura che i Re Magi esistono ancora. Se ho creduto al loro mito, al loro viaggiare notturno, all’inseguire le inquietudini di un camminare sulle rotte che non obbediscono alle segnaletiche della terra, ma a quelle del cielo, lo devo a mio padre. Quando ero bambino tornava a casa con le confezioni di polistirolo bianco, dove i datteri erano disposti a spina di pesce e davano l’odore di un oriente che si confondeva con il mare di sabbia dove avevano viaggiato i Re Magi: piste, oasi, dune, palmeti.
Mio padre era la loro personificazione: un sapiente che si affida ai libri per comprendere il punto geografico dove si sarebbe posizionata la nostra vita. Nel suo comprare datteri scorgevo il desiderio di riconciliare il segmento di tempo che avevamo da vivere, nei giorni finali dell’anno e anche dopo, nei mesi di luce crescente, dentro la matrice sapienziale e solitaria che mi restituiva il colore giallognolo di quei frutti. Il mistero si infittiva quando poi, entrato in casa, andava a riporre le confezioni negli angoli più riposti, sopra mensole che solo lui conosceva, forse addirittura tra i libri, nello studio, o nei cassetti della scrivania, per tirarli fuori quando mancava una manciata di secondi all’attimo in cui il mondo sarebbe salito di un gradino più in alto nella corsa vertiginosa verso la fine: meno dieci, meno nove... In televisione partiva il conto alla rovescia e i datteri comparivano sulla tavola per rendere più agevole il salto.
Era come se ci accompagnassero per mano nella svagatezza di un tempo che finiva e a cui invano avremmo cercato di aggrapparci, prima di convincerci che sarebbe stata un’operazione inutile. Il tempo scivolava veloce dentro le clessidre, gettava un’ombra inquieta su quegli attimi in cui niente più sarebbe stato come prima e la malinconia di quei frutti portava a noi un po’ della solitudine che scaturiva dalla loro origine lontana. Io non capivo, però sentivo che qualcosa in comune ci fosse tra il viaggiare dei Re Magi e le pile di libri nello studio, dove mio padre passava i giorni in un
vento invisibile che accarezzava i suoi tormenti di uomo.
Ripetevo i frammenti che avevo imparato a scuola: Consolati,
Maria, del tuo peregrinare. Credo fosse il testo più vicino all’atmosfera di quei momenti, anche se era chiara l’allusione a un’altra mezzanotte, non a quella di San Silvestro. Della filastrocca di Gozzano mi colpiva l’immagine girandolare di una coppia rifiutata, quando giungeva prima all’albergo del Cervo Bianco (S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove), poi all’Ostessa dei Tre Merli, che parlava con voce scontrosa: Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella. Son negromanti, magi persiani, egizi, greci... Anche da quelle parti, come noi, aspettavano la cometa. I datteri stavano lì, apparecchiati sul tavo- lo di casa nostra, prossimi a diventare cibo non appena avessimo varcato il Capodanno, e io immaginavo gli scienziati che si erano arrampicati sopra i tetti dei Tre Merli con la testa nelle stelle, contavo uno per uno i negromanti appollaiati sui terrazzi, vedevo i persiani, gli egizi, i greci fare su e giù con gli strumenti ottici e puntarli dritti al cielo per calcolare le distanze e misurare l’ampiezza della Via Lattea. Stavano lì, faccia all’insù, a maneggiare sestanti, compassi, rotoli di papiri.
Mio padre non avrebbe sfigurato se si fosse trovato in mezzo a loro. Avrebbe tolto la pellicola delle confezioni e sarebbe passato con il piatto, dicendo a tutti che mancava un nulla per la mezzanotte e che adesso i cieli erano finalmente un quaderno di scritture leggibili.