Banche creditrici in stallo sul rebus della conversione
Confortato dalla mossa del Governo, che getta una rete di sicurezza per garantire la liquidità a Carige, il Fondo volontario si prende del tempo per decidere su eventuali modifiche alle condizioni del bond da 320 milioni concesso a dicembre per tenere a galla la banca. «Abbiamo fatto qualche riflessione ma non c’era nessuna decisione oggi in previsione. Non era questo il luogo e la sede per decidere», ha detto ieri il presidente del Fitd, Salvatore Maccarone, al termine della riunione del consiglio di gestione dello Schema volontario, che raggruppa la quasi totalità delle banche italiane.
Ufficialmente, la decisione è rimandata a data da destinarsi. Ma è chiaro che tra le banche aderenti allo Schema volontario serpeggia una certa riluttanza rispetto alla domanda proveniente dai tre commissari straordinari di Carige, che lunedì hanno chiesto di abbassare il tasso d’interesse del bond, salito dal 13% al 16% dopo lo stop all’aumento di capitale. Una revisione che non è per nulla banale anzitutto per i meccanismi di voto previsto dallo statuto dello Schema: la revisione dell’interesse richiede l’approvazione degli aderenti al Fondo volontario pari ad almeno il 90% dei depositi protetti e del 50% delle banche. Ma al di là degli aspetti tecnico-procedurali, il ragionamento che si fa, tra gli aderenti allo Schema volontario, va oltre. L’opinione diffusa è che anche un ipotetico dimezzamento del tasso (che oggi si traduce in un onere di 52 milioni di euro annui) non cambierebbe di molto le prospettive della banca. Soprattutto se si considera che la vita dell’obbligazione subordinata non è destinata ad essere di lunga gittata ma ad esaurirsi nel breve periodo: sia nel piano A, ovvero quello in cui - come i Commissari confidano - Carige riesca a ripulirsi in fretta dei suoi deteriorati e a trovare un partner nel giro di 3/6 mesi; sia nel piano B, in cui - come il Governo di fatto auspica - si dovesse aprire il paracadute della ricapitalizzazione precauzionale, una volta sfumato il piano con capitali privati. Nel primo scenario, il bond verrebbe automaticamente rimborsato, mentre nel secondo l’obbligazione subordinata sarebbe direttamente convertita in azioni della nuova banca, complice il meccanismo del “burden sharing”.
Solo nelle prossime settimane si capirà quale è il destino di Carige, dei suoi azionisti e creditori. Certo è che qualora la banca dovesse immettersi sulla strada della ricapitalizzazione precauzionale, il sistema bancario italiano, tramite lo Schema volontario, si ritroverebbe azionista di minoranza della banca genovese insieme allo Stato, che farebbe la parte del leone. Un assetto azionario inedito, che necessiterebbe delle preventive autorizzazioni sia da parte di Francoforte che della Commissione Ue. Con quale quota, poi, lo Schema e il Tesoro potrebbero spartirsi il capitale della banca è ovviamente ancora presto per dirlo. Molto dipenderà da ciò che chiederà la Bce a fine mese, nell’ambito dei nuovi Srep. Lì si capirà esattamente il fabbisogno di capitale, che include lo shortfall maturato nel quadro degli stress test del 2018, e quanto nuovo capitale dovrà immettere lo Stato. A novembre, la Bce approvava un capital conservation plan che stimava un fabbisogno patrimoniale complessivo nell’ordine dei 400 milioni: da qua, infatti, la size dell’aumento posto al vaglio dell’assemblea a dicembre. Con la ricapitalizzazione precauzionale, tuttavia, il conto si fa più salato, perchè la banca deve ricostituire anche il deficit di capitale evidenziato negli stress test avversi (in cui Carige ha mostrato un Cet 1 ratio attorno al 4,3%): ecco perchè la cifra preventivata nel decreto approvato martedì per la ricapitalizzazione precauzionale è salita 1,3 miliardi (di cui 300 di garanzie). Un valore, questo, che oltre a pesare sulle casse pubbliche diluirebbe (e molto) la quota in mano alle banche italiane.