RELAZIONI INDUSTRIALI AL TEMPO DELLA TECNOLOGIA
Questa pubblicazione è dedicata alla evoluzione del lavoro mediante le relazioni di prossimità e a una ricognizione delle norme e delle buone pratiche che le sostengono. Il tema è stato sin qui trattato con ostilità e con parsimonia perché la rivoluzione copernicana avviata dall’articolo 8 del Dl 138/2011, convertito in legge 248/2011, ha suscitato reazioni negative tanto nei settori ideologizzati della dottrina, della politica e della società quanto in molte burocrazie centrali della rappresentanza. Molti hanno letto la novità con gli occhi del passato rifiutando l’idea di condurre a sintesi le categorie oppositive che hanno caratterizzato la regolazione del lavoro (e non solo) dalla metà dell’Ottocento: capitale-lavoro; regolazione-deregolazione; autonomia-subordinazione; diritti-doveri; collettivo-individuale; legge-contratto; nazionale-aziendale. L’articolo 8 ha implicato un cambiamento concettuale nel segno del “diritto vivente” opposto al “formalismo giuridico”: la sua essenza non sta nell’abilitare la scelta tra il bianco e il nero ma nel consentire di sottrarsi a quella scelta precostituita. Esso promuove, tecnicamente, una forma di responsive regulation ovvero di regolazione reattiva che tiene conto dei comportamenti dei soggetti destinatari. Potremmo perfino ritenere che in prospettiva è funzionale a quegli smart contract che nasceranno dall’impiego della blockchain quale infrastruttura idonea a favorire relazioni dirette e sempre più adattive tra i contraenti.
La regolazione legislativa pesante e i contratti collettivi nazionali invasivi si sono a lungo giustificati con la pretesa sindacale della uguaglianza dei lavoratori nelle produzioni seriali indotte dalla seconda rivoluzione industriale e con la volontà delle controparti di mettere al riparo le imprese dal pericolo di più livelli di rivendicazione sulle stesse materie. D’altronde il contrasto tra gli interessi delle imprese e dei lavoratori è stato ritenuto per lunghi decenni ineluttabileecomponibilesolointerminiegualitari. Ne sono derivate discipline omologhe di fonte legislativa e contrattuale, perciò rigide e non sempre adattabili a una nazione storicamente condizionata da grandi dualismi territoriali che, nel tempo della tendenziale polarizzazione, potrebbero ampliarsi. La tutela del contraente debole è stata concepita solo in termini statici e difensivi. La gestione del personale nell’impresa è stata in conseguenza altrettanto “collettivistica” e difensiva nei confronti delle rappresentanze esterne e interne, finalizzata per lo più al contenimento del danno. I salari, spesso considerati “variabile indipendente” a significare la distanza e la separazione tra le parti, sono poi stati correlati al massimo a indicatori di inflazione o di produttività
GLI ASSETTI TRADIZIONALI SOSTITUITI DAL VALORE DEI RAPPORTI DI PROSSIMITÀ
“media”. Termine ultimo che rappresenta una contraddizione in termini. Mentre negli altri Paesi industrializzati si affermava un salario minimo attraverso la legge e questo risultava collocarsi tra il 40 e il 60% del salario di fatto, nella esperienza italiana il minimo retributivo obbligatorio coincidente con il trattamento complessivo del contratto di riferimento superava il 90 per cento. Nel confronto con le economie competitrici abbiamo non a caso registrato salari più bassi, produttività del lavoro ancor più bassa, un costo del lavoro per unità di prodotto più elevato. Altrove, evidentemente, il salario minimo di fonte legislativa ha consentito soprattutto prassi contrattuali duttili e adattate, quando necessario, alle particolari condizioni aziendali. E ha determinato livelli più elevati della massa salariale, retribuzioni mediane superiori, un costo del lavoro più contenuto grazie alla ben maggiore produttività.
Da tempo ormai le condizioni che in qualche misura (invero poca) potevano spiegare tutto ciò sono drasticamente cambiate. La rivoluzione tecnologica in corso ha progressivamente innovato i modelli organizzativi della produzione di beni e di servizi. I tradizionali assetti verticali sono sostituiti da relazioni orizzontali fondate sulla collaborazione e sulla condivisione. La prestazione lavorativa non è più la mera esecuzione di ordini gerarchicamente impartiti ma si realizza per fasi, per cicli, per obiettivi ed è quindi richiesta di iniziativa e di creatività. Il lavoro agile non è solo una nuova modalità di svolgimento della prestazione, spesso sollecitata dal desiderio di conciliazione tra tempi di vita e lavoro, ma prefigura il cambiamento del lavoro nelle imprese reingegnerizzate in modo da configurarsi come native digitali. Il lavoro dipendente si affranca sempre più dal vincolo spaziotemporale e viene misurato in base ai risultati richiesti e prodotti. Il lavoro indipendente conosce fragilità e “dipendenze” fino a ieri sconosciute che sollecitano tutele e contrattazione collettiva per definirle. Tutti i lavori sono chiamati a continue transizioni professionali perché le nuove tecnologie si innovano con caratteri di velocità e imprevedibilità senza precedenti. La sola ipotesi della “fine del lavoro” è oziosa e fuorviante anche perché la caratteristica della rivoluzione digitale è quella di capacitare in termini geometricamente incrementali le persone. La grande sfida che attende i decisori istituzionali, gli attori della rappresentanza di interessi, gli imprenditori e i lavoratori consiste nella capacita di dominare le nuove macchine, reti, applicazioni affinché siano strumenti per una economia competitiva e per una vita buona a portata di tutti, a partire dalla quantità e qualità dei lavori. Le imprese potranno essere ancor più comunità non solo di interessi ma anche di valori.