Stop al calo storico dei tassi, ma l’inflazione resta al palo
I rendimenti dei governativi dei Paesi occidentali oscillano in una banda orizzontale
“Hic et nunc”, “qui e adesso”. È un approccio, spesso usato nell’analisi finanziaria, che non permette di cogliere i trend di fondo dei listini. Indossare gli occhiali di lungo periodo, invece, consente di capire meglio cosa accade sui mercati.
Così è anche nel mondo dei titoli di Stato. Qui analizzando la dinamica, ad esempio del decennale statunitense, ci si accorge che dagli anni ’80 è partito un mega trend di compressione dei tassi. «Un andamento che - spiega Silvio Bona, analista indipendente - ormai si è fermato. Tanto che, da diversi esercizi, assistiamo all’andamento laterale dei rendimenti del T-Bond stesso». Questi, a ben vedere, «si muovono in un fascia laterale compresa, in alto, dall’area di resistenza di lungo periodo intorno al 3,4% e, in basso, dal supporto, sempre di lungo periodo, dell’1,45%».
Si tratta di uno scenario che, con le debite differenze, è riscontrabile nella maggior parte dei titoli di Stato dei Paesi Occidentali: dal Bund tedesco all’OaT francese fino al nostro BTp. Seppure, in quest’ultimo caso, le turbolenze legate al rischio Italia hanno modificato non poco l’andamento dello yield.
Diverse motivazioni
Al di là di ciò è indubitabile che la riduzione storica dei rendimenti ci sia stata. Un calo conseguenza, a ben vedere, di molteplici cause. Tra queste possono dapprima ricordarsi le politiche monetarie delle banche centrali che, anche a fronte dell’aumentare del debito globale, hanno fatto del contenimento delle dinamiche inflazionistiche un loro mantra. Poi non deve dimenticarsi la profonda trasformazione dei processi industriali. Un contesto in cui, grazie alla stessa automazione dei sistemi di produzione, la produttività è aumentata molto di più rispetto ai salari. «Il che - spiega Angelo Drusiani, esperto di Banca Albertini - ha contribuito a ridurre il rischio inflattivo derivante dal costo del lavoro». Quel costo del lavoro che, in scia alla globalizzazione dell’economia, è stato mantenuto basso anche grazie a varie forme di delocalizzazione. Più recentemente ha inoltre recitato il suo ruolo la digitalizzazione dell’economia. La disintermediazione nella compravendita di beni e servizi, ad esempio attraverso l’e-commerce, ha ulteriormente contribuito a raffreddare il costo della vita.
Infine, ma non meno rilevante, c’è l’invecchiamento della popolazione. «Si tratta - spiega Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte Sim - di una variabile strutturale». In Occidente «la durata media della vita si è innalzata. Una situazione che, a fronte della comprovata minore propensione al consumo delle persone di maggiore età, nuovamente tende a ridurre le dinamiche inflazionistiche».
I prezzi al consumo
Già, l’inflazione. Questa, come tutti sanno, è in linea di massima un indicatore della crescita economica. Certo: quando va fuori controllo segnala importanti problematiche per la congiuntura. E, tuttavia, la sua presenza in percentuali contenute è ben vista dagli esperti. L’indizio che l’economia si sta muovendo. Orbene cosa ci dicono i tassi governativi rispetto ad essa? «Se si analizza l’andamento di lungo periodo - risponde Drusiani - salta fuori che, in generale, i rendimenti da alcuni anni si muovono un po’ all’insù e un po’ all’ingiù». Un movimento laterale, per l’appunto, delimitato da valori che «rispetto a quelli del passato sono molto più bassi. Il segnale che, strutturalmente, le economie Occidentali stanno perdendo potenza». Certo: le variabili in gioco sono diverse. La situazione potrebbe cambiare anche repentinamente. Magari in seguito ad un Cigno Nero. «Il quale, però - conclude Drusiani -, è molto difficile si materializzi con sembianze dell’inflazione». Sia per i motivi strutturali, ancora presenti, che hanno alimentato il calo di lungo periodo dei tassi. Sia «perché aggiunge Bona - la stessa analisi tecnica di breve indica come improbabile il rialzo del costo della vita».