Rapiti e sedotti dal ragno «Rinaldo»
Successo dell’opera al Teatro Sociale di Como. Poi in scena a Pavia
Il mago è lui. Non c’è artificio, pozione o mazza da baseball (più sotto la spiegazione) che tenga: date Händel a Ottavio Dantone, mettetegli davanti un clavicembalo e vi stregherà. Contagiando di virtuosismo tutti, qui l’Accademia Bizantina e le voci gorgheggianti di Delphine Galou, Francesca Aspromonte, Raffaele Pe. Arma vincente del suo Rinaldo - oggi pomeriggio in replica al Sociale di Como, il prossimo fine settimana nel gioiello del Bibiena a Pavia - è la lettura a trama continua. Dove la partitura si dipana tessuta come una tela di ragno, per cerchi sempre più larghi. Così da cancellare definitivamente la tradizione dell’opera barocca per numeri chiusi. Uno dopo l’altro. Senza tensione. Sempre punto e a capo.
Ben ardua senza un preliminare doppio caffè. Che non serve in questo Rinaldo. Perché Dantone irretisce, sornione, lentamente, gesto dopo gesto, sferragliando, pizzicando, suonando con pari valore disegni di quattro note o forme fitte di contrappunto, stanando tutte le arti seduttive timbriche dello strumento e insieme la scoppiettante e libera invenzione del Sassone, che scrive per Londra, nel 1711, il primo capolavoro dell’opera italiana. I critici inglesi lo sbeffeggeranno, cavalcando l’insuccesso clamoroso del debutto. Glissando sulla musica e raccontando invece degli uccellini, liberati in sala, con le dame furiose per i cappelli inzaccherati. Ma Händel con quella pazzia delle centinaia di voliere ci testimonia un’intenzione forte: fare teatro. Non decorativo. Non gastronomico, di prodezze di castrati. Rinaldo avvince, perché avvinto. Lo recupererà vent’anni dopo, nel 1731, per sfidare il tempo e giocare a perdersi ancora.
L’idea del ragno in scena dunque è perfetta. Si sente che è stata cucita insieme, da regista e direttore, intrecciando anche le due versioni dell’opera. Campeggia nell’enorme insettone (aracnofobici avvertiti) di Mauro Tinti, perno alla regia di Jacopo Spirei. Giovane talentoso – come dimostrò nel Falstaff schiacciato dal pancione, al Verdi di Parma – qui troppo nella rete. Prigioniero del ragnone, meno attento a elementi tecnici, di racconto. Da macchina barocca, la bestiola dovrebbe essere ad esempio svelata in modo più progressivo (vedi elefante di Vick, maestro di Spirei); troppo a lungo in scena, diventa addomesticato; quando ne resta solo una zampa, nell’ufficio di Rinaldo, impiegato del catasto, paralizza la battaglia contro il mago Argante, compagno di scrivania.
Quando Almirena, la bella ingenua sempre scalza, abitini bon-ton di Silvia Aymonino, assai scosciata nei baci del duetto dopo le avventure, viene rapita dalla meravigliosa Armida - per la quale tutti parteggiamo - non porta alcuno spavento in sala: la maga, dark, calze a rete ovvio, mani uncinate in lunghi guanti neri, la prende con sé come fossero due amiche a spasso. Il barocco, e ancor più in questa innovativa e imprescindibile lettura di Dantone, non può fare a meno degli effetti per i quali è nato. Non basta un prato dove erba e alberi crescono in verticale. Ci vuole più scavo, più studio, più scuola.
Forse non è un caso che Delphine Galou, unica francese in un cast tutto italiano, rimanga su tutti teatralmente impressa. E non è la voce con più volume, anche se dosata con intelligenza per tutta l’opera e con un paio di colpi bassi (note gravi) di pura sorpresa. Canta il ruolo en-travesti di Rinaldo. Senza averne letto prima il nome assolutamente irriconoscibile. Restituisce un timido allampanato, ancorato alla ciambella salvataggio della scrivania. Nell’Aria dove chiede ad Amore di donare i vanni, le ali per combattere e volare, esce letteralmente di sé, su note sgranate e in gesti millimetrici. Sfida il ragno ed è più forte di lui, quando apre le braccia sulla parete del night. Che si chiama The Spider e vanta tre ragazzotte sberluccicanti, ispirate al Crazy-Horse.
Raffaele Pe tra i contraltisti è una star, saettante acuti e sovracuti; Anna Maria Sarra e Luigi De Donato cantano assai bene, più innamorati che terrifici; Federico Benetti, il mago rivale, qui accattone, con mazze da baseball come armi (eccole!) nascoste nel carrello della spesa, bene deliba la sua unica Aria. Prodigiosa, incantatoria, svetta Francesca Aspromonte, non solo ma anche in un Lascia ch’io pianga con tre “da capo” fioriti, brillanti in entrate centellinate un soffio in ritardo sul cembalo, autentica meraviglia. Osi recitare, sul canto, diventerà regina.