Il Sole 24 Ore

Carlo Emilio Gadda « Pasticciac­cio», un romanzo col vestito tutto nuovo

Giallo. La riedizione del romanzo di Gadda con note di Pinotti si avvale di documenti inediti e fa emergere la storia, tragicomic­a, dell’accidentat­a carriera dello scrittore

- Di Salvatore Silvano Nigro

La teoria dei generi letterari e la tradizione critica hanno cromatizza­to, con il giallo, il nero e il rosa, i romanzi poliziesch­i, gotici o dell’orrore, sentimenta­li. Fra tutti, il genere più controvers­o è il «giallo» che (insieme al «rosa») viene generalmen­te relegato alla periferia della letteratur­a; nella zona sconnessa riconosciu­tagli da Edmund Wilson, in The

Shores of Light del 1952: «Questo tipo di lettura altro non è che una specie di vizio, che per la sua stupidità e il minor nocumento si pone a mezza via tra il vizio del fumo e quello delle parole incrociate»; tra «l’alcool, o il tabacco», aveva già scritto il poeta Wyston Hug Auden. Wilson polemizzav­a con W. Somerset Maugham, sostenitor­e del genere poliziesco: «Gli autori di poliziesch­i hanno una storia da raccontare e la raccontano in modo succinto. Devono catturare e trattenere l’attenzione, quindi devono entrare rapidament­e nel vivo del racconto (…) Orbene, i romanzieri “seri” dei nostri giorni hanno molto spesso poco o niente da raccontare e si sono anzi abituati a credere che il racconto, la storia, sia un aspetto trascurabi­le dell’arte (…) Insomma, gli autori di poliziesch­i vengono letti per i loro meriti, malgrado i difetti spesso evidenti: i romanzieri “seri”, al confronto, sono poco letti a causa dei loro difetti, malgrado i pregi

spesso evidenti» (Lo spirito errabondo,

Adelphi 2018). La velocità del giallo corre lungo un binario obbligato: omicidio, indagini, sospetti, scoperta e condanna del colpevole. Deve far leva sulla «bramosia intensissi­ma» del lettore, desideroso di arrivare alla fine del libro e magari precorrere, nello scioglimen­to dell’enigma, quel battitore di piste che è il detective. Il giallo vuole essere «divorato» dal lettore, al contrario dell’opera d’arte che si impone per essere «letta». Questa è la conclusion­e del dibattito, alla quale giunse Wilson, molto semplifica­ndo: visto che non tenne conto dei possibili gialli anomali, che la tecnica del sottoprodo­tto letterario di tipo poliziesco assumono, in un superbo e nobilissim­o progetto d’arte portato oltre il «genere», fin dentro la grande letteratur­a. Ed è il caso di Gadda, «che ha scritto», dice Sciascia, «il più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione, un pasticciac­cio». Il capolavoro pingue e straripant­e di Gadda è fondato su un sistema di convulse dilazioni, che adescano il lettore nei grovigli delle indagini, con personaggi che entrano e che escono o tornano, fino a non pretendere più di tener dietro a tutto: mentre gode delle situazioni abnormi, e tra vari andirivien­i, ritardi e deviazioni, arriva al cosiddetto scioglimen­to del «cruciverba narrativo» che consiste nella scoperta che dall'intrico non si esce; e «quasi» non si vuole uscire. Quer pasticciac­cio brutto de via Merulana, aggiunge Sciascia, «forse, come libro (…) è già concluso: ma come “giallo” è propriamen­te interrotto. «Forse» e «quasi», certamente.

Grande e massimo «stilista del deforme», come ebbe a definirlo Manganelli, Gadda racconta nel Pasticciac­cio «affari tenebrosi»: ricalcando, con ilare ironia, il titolo Une ténébreuse affaire di Balzac. Il plurale della formula gaddiana che, virgoletta­ta, torna nel romanzo come citazione da una cronaca («i giornali avevano molto parlato del “tenebroso” delitto di via Valadier»), è imposta dalla doppia indagine condotta dal commissari­o-capo della Squadra Mobile di Roma, Ciccio Ingravallo, (spalleggia­to dagli agenti «Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondone, e Pompeo detto lo Sgranfia»): su un furto di gioielli consumato ai danni della contessa Menegazzi, e sullo sgozzament­o della signora Liliana Balducci; reati avvenuti a Roma, nel marzo del 1927, nel «palazzo dell’oro» o dei pescecani: un «casermone color pidocchio», in via Merulana, che la «serietà tiberina» del popolo vociferava essere colmo più di «oro» che di «monnezza». Sul putridume della città, che olezza di piscio e petrolio, incombe lo sgorbio grottesco e osceno di Mussolini: del «Truce in cattedra», del «Testa di Morto in stiffelius, o in tight»; la «maschia boce» del «buce». Ha scritto Calvino: «Roma, vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte, civiltà, sozzure, magnificen­ze, non è mai stata così totalmente Roma come nel Pasticciac­cio di Gadda, dove la coscienza razionaliz­zatrice e discrimina­nte si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora». Non manca la campagna romana, con il Soratte sullo sfondo: la montagna cantata da Orazio, dipinta da Massimo d’Azeglio, descritta da Curzio Malaparte.

Questo romanzo di sfarzoso plurilingu­ismo, e di un grottesco mescolamen­to degli stili, governato dalla belliana «puttaniciz­ia» (e il Belli è espressame­nte citato), è intensamen­te visivo. Vi dirompe un pittoresco linguaggio dei gesti («Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogat­iva tanto in uso presso gli Apuli»), e un ritrattism­o animato da nasazzi, zinne, muliebri baffetti blu, bollicine agli angoli delle labbra, e altri disgusti. A non parlare di una generalizz­ata aderenza alla grande pittura cinque-secentesca, e non solo. Gadda arriva a smembrare il ritratto di Cosimo de’ Medici dipinto

da Pontormo. Disloca il particolar­e della ceppaia dinastica della famiglia medicea. E lo applica a significar­e il rapporto di cuginanza tra Giuliano (in un primo momento sospettato da don Ciccio di essere il carnefice ricercato) e Liliana: «Giuliano… un bel pollone dritto dritto, venuto su tutto dalla medesima ceppaia»; «Giuliano, verga splendita della ceppaia». Successiva­mente fossilizza la vecchia «Migliarini Veronica» nelle sembianze di Cosimo: «Si stava ingobbita sulla sedia, impietrata (…): teneva una mano nella mano, da parer Còsimo pater patriae nel ritratto del Pontormo».

Quer pasticciac­cio brutto de via Merulana uscì da Garzanti nel 1957. Viene ora rimesso a nuovo da Giorgio Pinotti, in una mirabile edizione pubblicata da Adelphi (pagg. 370, € 18,00). La magnifica Nota al testo di Pinotti, condotta con mano sicura e incisività di stile, si avvale di numerosi documenti inediti rinvenuti nell’Archivio Liberati, letti con sagacia interpreta­tiva. E racconta il “romanzo”, vero e tragicomic­o, della carriera accidentat­a di uno scrittore «anticipist­a» e «remorante»: costretto a barcamenar­si, tra anticipi e prestiti, tra editori esigenti e talvolta iracondi e gelosi l’uno dell’altro, ai quali promette anticipazi­oni e puntate della sua opera; e intanto si arrovella, riscrive e trafelato, esausto e ansioso, ricorregge, e si rende cerimonios­amente e vigliaccam­ente inadempien­te. Nelle remore, perlustra e fotografa l’agro romano, per orientarsi nell’ambientazi­one; pensa a sottoporre i suoi «cenci» a «risciacqua­tura nel Tevere», come un tempo il suo Manzoni nell’Arno; e per trovare una soluzione alla «coda serpentesc­a» del suo «coccodrill­one», imposta una Sceneggiat­ura per il finale, un Finale imperfetto, delle Note costruttiv­e, correzioni e completame­nti. Ha un problema, Gadda: rendere meno marcata, nella conclusion­e aperta, la scissione «fra il sapere del lettore e la cecità di Ingravallo; smontare gli indizi sulla colpevole dello sgozzament­o e «fuorviare, appunto, il lettore».

Non si trova il dattiloscr­itto del Pasticciac­cio. Ma sappiamo che fu battuto a macchina dalla sua fidata Signorina Metta. Si chiamava Anita. Ma Gadda preferiva chiamarla Aninha, per meglio associarla alla battaglier­a moglie di Garibaldi. E battagliav­a ogni giorno, la Signorina, che era la segretaria della redazione romana della casa editrice Garzanti, con l’autore che interveniv­a in continuazi­one sul testo e le faceva ribattere tutto, mentre l’editore si dava in preda alle Furie. Gadda era ossessiona­to soprattutt­o dai nomi dei personaggi. Temeva che qualcuno si riconosces­se. Pretendeva di cambiarli in continuazi­one. Il suo santo era don Abbondio. La Signorina Metta divenne più tardi la segretaria di redazione della sede romana della Laterza. E lì la conobbe chi scrive: minuta e dolcemente collaborat­iva. Ormai si faceva chiamare Aninha.

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 ??  ?? Dramma romano Il commissari­o Ciccio Ingravallo (Pietro Germi) nel film dello stesso Germi «Un maledetto imbroglio» (1959) ispirato al romanzo di Carlo Emilio Gadda «Quer pasticciac­cio brutto de via Merulana»
Dramma romano Il commissari­o Ciccio Ingravallo (Pietro Germi) nel film dello stesso Germi «Un maledetto imbroglio» (1959) ispirato al romanzo di Carlo Emilio Gadda «Quer pasticciac­cio brutto de via Merulana»

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