L’impatto sarà evidente sul deficit strutturale
Se si guarda alle componenti che stanno determinando quella che il ministro Giovanni Tria definisce la «battuta d’arresto» della nostra economia, e che per la Commissione Ue e per il Fmi è già sostanzialmente l’anticamera della recessione, si possono individuare diversi elementi di criticità. Da un lato si registra una caduta del livello di fiducia da parte delle imprese e dei consumatori, dall’altro l’aumento del costo di finanziamento del debito, con lo spread nuovamente nei dintorni dei 280 punti base, contro i 120 punti base di un anno fa. Se vi si aggiunge la contrazione della componente decisiva degli investimenti, l’effetto sul Pil – queste le analisi che vengono condotte in sede tecnica – si evidenzia sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. E qui emerge il problema maggiore, poiché questa combinazione di effetti concentrici (se la tendenza non si arresterà in breve tempo) andrà a incidere sul prodotto potenziale. In tal modo, andrebbe a ridursi l’output gap, che misura lo scostamento tra il Pil potenziale e quello effettivo, con la conseguenza che peggiorerebbe il saldo strutturale.
Nel faticoso accordo raggiunto con Bruxelles nel dicembre scorso, conclusosi con il ritocco al ribasso della stima del deficit nominale (dal 2,4 al 2%) e nel conseguente ridimensionamento della manovra per 10,2 miliardi, il Governo si è impegnato quanto meno a non peggiorare il saldo strutturale, che è l’indicatore su cui si misura il giudizio della Commissione Ue. Stando alle regole europee, il deficit strutturale andrebbe ridotto per almeno lo 0,6% del Pil ogni anno fino a raggiungere il pareggio. Nella versione iniziale della manovra, il deficit strutturale sarebbe aumentato – a parere di Bruxelles - dello 0,8% con ciò determinando quello scostamento «senza precedenti» che avrebbe in mancanza di un’intesa determinato la procedura d’infrazione.
L’accordo siglato sul foto finish prevede che il saldo strutturale non peggiori. Se ciò non avverrà, la Commissione Ue tra giugno e luglio potrebbe chiedere una correzione dei conti già sull’anno in corso, a fronte della quale il Governo potrà solo in minima parte ricorrere alle cosiddette “circostanze eccezionali”, essendo appunto in presenza di un peggioramento strutturale delle prospettive di crescita dell’economia.
Si tratterà poi, come di consueto, poiché da anni tra Roma e Bruxelles permane una notevole distanza per quel che riguarda i criteri di calcolo del Pil potenziale. Ne ha fatto cenno Tria nella sua informativa in Parlamento quando ha osservato che «un eventuale sforamento dell’obiettivo di deficit, se dovuto a un peggioramento del ciclo, causa un allargamento dell’output gap e non impatta dunque sul saldo strutturale».
Sul versante dell’onere per interessi, non vi sono al contrario possibili vie di uscita. Nell’aggiornamento del quadro macroeconomico di finanza pubblica pubblicato a dicembre, il Governo nel rivedere all’1% la stima di crescita per quest’anno (lo 0,5% in meno rispetto alla stima di settembre) con il debito a quota 130,7%, ha previsto che l’onere per interessi passi dal 3,7% del Pil quest’anno al 4% del 2021, incorporando in questo modo gli effetti dell’aumento dello spread in un range tra 260 e 280 punti base. Nel 2018 vanno contabilizzati circa 3 miliardi in più, e nella proiezione fino al 2021 si toccherebbero i 76 miliardi rispetto ai 65,5 del 2017. Se il differenziale tornasse ad attestarsi stabilmente al di sopra dei 300 punti base, i calcoli andrebbero rifatti. E non vi è certo da augurarselo.