«Capitale di rischio e più stranieri per far correre Pmi e digitale»
Ci sono ancora aziende che non hanno un sito web e sono senza e-commerce
«Il credito, da solo, non può bastare. Le piccole e medie imprese potranno crescere – sul segmento Aim o altrove – solo se faranno ricorso anche al capitale di rischio. Per questo, bisogna riuscire a portare in Italia investitori esteri qualificati».
Nel giorno in cui l’Unione europea stima, per il 2019, un Pil fermo allo 0,2%, per il responsabile della divisione Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, Stefano Barrese – nella cornice di Connext – le “ricette” per la crescita delle Pmi nostrane passano per la leva del capitale di rischio.
L’occasione è un incontro-confronto con David Thorne, ex ambasciatore Usa in Italia sotto la presidenza Obama e profondo conoscitore del nostro Paese. Che spiega: «Questa non è la fine della globalizzazione, ma una fase di aggiustamento e di scambi più “regionalizzati” che globali. Negli Usa, nel 1990 solo il 3% dei cittadini aveva un passaporto. Oggi sono il 25%. I processi di apertura richiedono tempo. Ma gli investitori Usa apprezzano molto il Made in Italy e vogliono investire di più in Italia»
«Noi parliamo di digitalizzazione e Industria 4.0, ma ancora oggi – spiega Barrese – ci sono aziende che non hanno un sito web, che si precludono la via dell’e-commerce».
Da una recente indagine condotta dalla Ipsos di Nando Pagnoncelli emerge che la rivoluzione digitale, l’efficientamento dei processi e l’innovazione sono identificati come prioritari: 1 azienda su 4 sta già implementando programmi specifici. Tuttavia, l’ostacolo principale, ancora prima della mancanza di competenze tecniche, è una certa resistenza al cambiamento e, in generale, la staticità della cultura aziendale. Emerge inoltre che nel 2018 è cresciuta in maniera rilevante la fiducia delle Pmi verso il settore bancario, e rimane alta quella nella propria banca. Il ruolo della banca per il raggiungimento degli obiettivi di crescita diviene sempre più importante, soprattutto per le medie imprese». Non proprio quella diversificazione e quel ricorso ad altre foprme di approvvigionamento di cui forse le Pmi avrebbero bisogno.
Peraltro, ha ricordato ancoraBarrese, sia alle Pmi che alle filiere «che sono spesso il veicolo attraverso il quale molte aziende, in questi asnni, sono diventate “grandi”, i protezionismi in generale sono un elemento di freno. Ci si augura che queste cose progressivamente trovino una soluzione. Questo è un elemento per il quale tutti a livello internazionale dovrebbero lavorare».