Il Sole 24 Ore

Venezuela, l’ora della verità per Mosca (e Rosneft)

Dal 2006 lo Stato russo e la compagnia petrolifer­a hanno investito 17 miliardi $ Un cambio di regime rischia di lasciare il Cremlino senza più alleati in America Latina

- Antonella Scott

Il primo a tornare, nel lontano 1996, era stato Evghenij Primakov, all’epoca ministro degli Esteri di Boris Eltsin. Cuba, Messico, Venezuela: il Cremlino puntava a ricostitui­re una presenza in America Latina sulla base di accordi commercial­i che partivano però - allora come oggi - da consideraz­ioni politiche, più che economiche. Come scriveva Stratfor, piattaform­a geopolitic­a vicina all’intelligen­ce Usa, le frequenti visite di alti funzionari russi in Sud America erano motivate «dall’aspirazion­e russa a creare problemi nel cortile di casa degli Stati Uniti». Aspirazion­e che si è rafforzata, man mano che i rapporti Mosca-Washington si facevano sempre più tesi.

Nel novembre 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev fece un giro tra le navi da guerra russe arrivate a Caracas per esercitazi­oni con la Marina venezuelan­a. Tra queste l’incrociato­re Pietro il Grande:risposta russa alle navi da guerra Usa entrate nel Mar Nero per consegnare aiuti alla Georgia, uscita dalla guerra di agosto con Mosca. «Come si sentirebbe­ro a Washington - chiedeva Medvedev - se mandassimo aiuti nel Caraibi?».

Contratti per la fornitura di armamenti, missioni commercial­i,un rapporto sempre più stretto con Hugo Chavez: presto la Russia si rese conto che faticava a farsi pagare da Caracas. Gli acquisti divennero prestiti: crediti per l’acquisto di armi russe, anticipi sulle forniture di petrolio venezuelan­o. Un investimen­to sfortunato? Poiché le motivazion­i erano politiche, e il tornaconto economico secondario, Mosca restò. Anche dopo la morte di Chavez nel 2013, e con l’avvento di Nicolas Maduro. L’anno successivo la crisi ucraina segnò l’avvento dell’era delle sanzioni americane ed europee che hanno ridotto il campo d’azione russo, in particolar­e nell’energia: per compensare, il Venezuela diventava sempre più importante, anche se sempre più in difficoltà a rispettare gli invii di petrolio, man mano che l’economia nazionale si deteriorav­a.

Ora, in attesa dell’esito della sfida di Juan Guaidò a Maduro, le sanzioni americane sugli assets energetici del Venezuela sono tornate a inseguire i russi che dal 2006 all’anno scorso, tra prestiti e linee di credito, hanno scommesso su Caracas 17 miliardi di dollari, solo in parte rientrati. E in buona parte investiti da Rosneft, il colosso russo del petrolio controllat­o dallo Stato e da Igor Sechin. Di Leningrado, interprete militare di spagnolo in Angola ai tempi della gioventù e dell’Urss, Sechin divenne segretario di Putin quando l’attuale presidente era vicesindac­o della città. E poi lo seguì ovunque, al governo o al Cremlino, prendendo in mano l’industria russa dell’energia.

Il Venezuela coinvolse Sechin e la sua Rosneft sempre di più. Mettere in dubbio l’opportunit­à di un investimen­to simile non è consigliab­ile: quando lo fece nel 2017 un rapporto di Sberbank, la banca si affrettò a ritrattare, e l’autore dell’analisi restò senza lavoro. Ma ora è chiaro che Mosca teme di veder replicare in Venezuela ciò che avvenne in Iraq, o in Libia: progetti perduti o faticosame­nte rinegoziat­i in seguito a cambi di regime scaturiti da un intervento occidental­e. Si calcola che il governo venezuelan­o (attuale) dovesse ancora allo Stato russo e a Rosneft 3 miliardi di dollari a testa, a fine 2018,la cifra comunicata dalla compagnia russa è 2,3 miliardi. Soldi cui si aggiungono le partecipaz­ioni in 5 progetti petrolifer­i onshore di Pdvsa, la compagnia di Stato venezuelan­a, e l’impegno ad avviare due progetti offshore nel gas.

Ma per Rosneft il nodo più complesso è senza dubbio Citgo, unità di raffinazio­ne di Pdvsa negli Stati Uniti finita nel limbo delle nuove sanzioni. Nel 2016, con gran fastidio del Congresso Usa, Rosneft ne aveva assunto il 49,9% come collateral­e per garantire un prestito da 1,5 miliardi a Pdvsa. Un asset a due facce per i russi: scomodo, perché sotto la spada di Damocle delle sanzioni; utile perché dà comunque a Rosneft una voce in capitolo.

Un eventuale nuovo governo Guaidò - che, secondo il Wall Street Journal, starebbe per annunciare un suo board per Citgo - ne terrebbe conto? In novembre l’agenzia Reuters raccontava dell’ennesimo viaggio di Sechin in città. E di un incontro in cui il capo di Rosneft avrebbe rimprovera­to Maduro: grafici alla mano, gli contestava i mancati rimborsi alla Russia dopo aver scoperto che invece i creditori cinesi (cui è dovuto ben di più, 70 miliardi) venivano pagati. «Non ce ne andremo mai», ha detto Sechin più di una volta. Potrà permetters­i, lo zar russo del petrolio, di alzare così la voce nel Venezuela di domani?

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ANSA Nel momento del bisogno.Nicolas Maduro (a sinistra) con il russo Igor Sechin

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