Impegno sociale, brand reputation e il logorio da Super Bowl
L’altra faccia della pubblicità. Quella impegnata, inclusiva, valoriale. Se i brand hanno scelto in massa questo tipo di narrazione con gli spot trasmessi durante la cinquantatreesima edizione del Super Bowl, c’è da giurarci che l’operazione funziona e che ha un ritorno in termini di reputazione e quindi di business. D’altronde il tariffario dell’evento sportivo, ma di fatto diventato nel tempo una passerella mondiale di musica e spettacolo, ha visto aumentare del +96% il costo dello spot da trenta secondi negli ultimi dieci anni, arrivando ad attestarsi per questo 2019 a 5,3 milioni di dollari. Paradossalmente nell’anno dell’arretramento: stavolta l’evento svoltosi nella notte tra domenica e lunedì ha fatto registrare un’inversione di tendenza per la trasmissione sulla CBS, con una media di 44,9 di rating sui 56 mercati analizzati da Nielsen e un calo del 5% sullo scorso anno.
Il racconto di questo “corporate activism” in formato video, trasmesso sulla tv via cavo e poi rimbalzato su YouTube, è stato raccontato dal New York Times: quest’anno le aziende si sono concentrate sulla celebrazione delle donne, sulla nostalgia degli anni '90 e sulle azioni filantropiche, ha scritto Sapna Maheshwari. «In questi anni si stanno consolidando tematiche piuttosto evidenti, un tempo relegate alla comunicazione della social responsibility. Oggi invece questi filoni diventano il centro nevralgico della comunicazione di un brand. Si parla di “cause related marketing”, ovvero di video che hanno per oggetto cause a forte impatto sociale, con l’obiettivo di migliorare la brand reputation», afferma Diego Fontana, autore di “Screen – Scrivere video per comunicare”, appena uscito per FrancoAngeli. Tra le campagne memorabili del Super Bowl quest’anno si è distinta Microsoft, con i bambini affetti da disabilità e uniti tutti dalla passione del videogame. Così il colosso tech ha presentato l’Adaptive Controller per Xbox, rendendo il prodotto il più inclusivo possibile. C’è poi il video scanzonato e dissacrante “The Elevator” di Hyundai, che riproduce il ritmo e lo stile di una narrazione da YouTube. E poi l’autocritica col sorriso di Amazon, che affronta la relazione tra tecnologia e quotidianità. E ancora durante l’evento ha esordito il primo spot del Washington Post con Tom Hanks, tra racconto della contemporaneità e missione sociale.
Spot impegnati. Col rischio però di un logorio di genere. «Parliamo ormai di veri e propri filoni narrativi che forse iniziano a mostrare anche qualche elemento di criticità. Il rischio è che queste narrazioni possano svuotarsi di valore, fino a perdere di credibilità ed efficacia. Il pubblico inizia a domandarsi cosa ci sia dietro queste proposte tematiche». sottolinea Fontana.
Video multipiattaforma e tendenzialmente longform, inseriti in un piano marketing molto profilato e che arriva ad ibridare campagne tabellari televisive con il consumo digitale. «Oggi tv e canali digitali possono essere utilizzati in modo complementare all’interno di una strategia complessa, con l’obiettivo di intercettare i diversi pubblici negli ambienti in cui essi si muovono abitualmente. Spot tv e video online sono strumenti di cui sempre più abbiamo imparato a conoscere similitudini, differenze e specificità, e che ora – in una fase certamente più matura di un tempo – possiamo anche ibridare», precisa Fontana. Il consiglio è evitare di rincorrere tendenze per inserirsi in conversazioni di ampia portata. «Alla fine di un lungo percorso di comunicazione ciò che resterà è la differenza che ha saputo esprimere la marca nel mondo». E poi meno ansia da controllo. «Il pubblico è fatto anche di creatori, che possono non solo rispondere e commentare i messaggi che intercettano, ma anche crearli, generando oggi un consenso di ampia portata».