LA POLITICA PUÒ SALVARE L’ECONOMIA EUROPEA
L’outlook sulle previsioni economiche del 2019 e 2020, presentato dalla Commissione europea tre giorni fa, è preoccupante. Si dice che ci si aspetta che «il ritmo di crescita complessivo…si modererà rispetto agli alti tassi degli anni recenti», a causa della «grande incertezza» internazionale ed europea. Il Pil del 2019 dell’Eurozona viene tagliato seccamente al ribasso (di 0,6 punti all’1,3%), così come viene rivisto al ribasso il Pil del 2018 (dal 2,1 all’1,9 per cento). Le previsioni per l’Italia sono addirittura le peggiori di tutta l’area, prevedendo una crescita del Pil dello 0,2% nel 2019. Di fronte a questa prospettiva, ci si aspetterebbe che tutti i governi, a partire da quello italiano, si rimboccassero le maniche per trovare soluzioni cooperative. Aspettativa delusa. Anzi, a cominciare proprio dal nostro governo, ciò che viene fatto è esattamente il contrario. Si apre addirittura uno scontro diplomatico con la Francia. Nel secondo dopo-guerra non era mai successo che un ambasciatore francese venisse richiamato dal proprio governo per protestare contro le scelte e (soprattutto) i comportamenti di esponenti del governo italiano. Avvenne nel 10 giugno 1940, dopo che l’Italia fascista del dittatore Mussolini aveva deciso di dichiarare guerra alla Francia della Terza Repubblica del governo Reynaud. Come spiegarsi tale mismatch tra economia e politica? La risposta va cercata nella rinascita del nazionalismo (divenuto sovranista). Vediamo perché.
Con gli allargamenti (nel 2004 e 2007) verso est e sud dell’Unione europea (Ue), il nazionalismo è ritornato ad essere un attore cruciale della politica europea. Naturalmente, il nazionalismo era presente anche prima di quegli allargamenti, ma si è trattato (e si tratta) di un nazionalismo democratico (quello britannico) oppure cooperativo (come quello scandinavo). Nonostante l’occupazione subita nell’aprile del 1940, nessun leader politico danese ha mai accusato i governi tedeschi post-bellici per quell’occupazione. Invece, il governo polacco (nazionalista) di Kaczynski, nelle discussioni che portarono (tra il 2006 e il 2007) al Trattato di Lisbona, chiese che nel calcolo della popolazione polacca venissero inclusi anche i milioni di polacchi uccisi dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Oppure, l’attuale governo polacco (nazionalista), costituito sempre dal partito di Kaczynski, continua a rivendicare un rimborso di 1 miliardo di dollari dalla Germania, per i danni da quest’ultima inflitti durante l’occupazione del Paese nel 1939. Il nazionalismo è divenuto l’ideologia per la ricostruzione dell’identità nazionale in tutti i Paesi dell’Europa orientale (per non parlare dei Paesi balcanici che bussano alla porta dell’Ue). Naturalmente, il nazionalismo non è sparito dai Paesi occidentali. Quando il nazionalismo riemerge, è difficile stabilire dove potrà fermarsi. Per ora, sembra esprimere il rancore verso i due grandi Paesi dell’Europa continentale, Germania e Francia, accusati di disconoscere la dignità dei loro vicini. Quei due Paesi hanno le loro responsabilità, con i loro comportamenti da grande potenza non più giustificabili. Tuttavia, essi (con i loro difetti) sono attaccati anche perché rappresentano il perno del progetto anti-nazionalista dell’integrazione europea.
Ecco perché, nella crisi italo-francese, vi è molta battaglia elettorale. Il presidente francese Macron costituisce un bersaglio formidabile, per i sovranisti italiani, in quanto indiscutibile leader dell’europeismo. Per di più, trasferendo a Parigi l’attenzione degli italiani, si spera che questi ultimi si distraggano rispetto a ciò che sta succedendo a Roma. Quella crisi riflette però una linea di frattura più profonda che sta ridefinendo la politica europea. Non era mai successo che le elezioni per il Parlamento europeo divenissero l’occasione per dividere i Paesi europei, prima ancora che i partiti politici. Secondo le simulazioni dell’Istituto Cattaneo, il prossimo Parlamento europeo registrerà una vera e propria polarizzazione tra partiti europeisti (popolari, socialisti, liberali e verdi) e partiti sovranisti (nazionalisti, populisti, euro-critici). Se è probabile che i primi (alleandosi) riusciranno a conservare la maggioranza dei seggi, quest’ultima tuttavia sarà contenuta. Ma soprattutto, quelle simulazioni ci dicono che la nuova divisione politica riflette anche una vera e propria divisione geografica. Le rappresentanze sovraniste verranno principalmente dai Paesi dell’est dell’Europa, ma soprattutto dall’Italia. Siamo di fronte alla messa in discussione del progetto di integrazione, così come era stato pensato a Roma nel 1957. Allora, per dirla con Jean Monnet, ci si propose di costruire un mercato comune (quindi divenuto unico) che, attraverso il miglioramento delle condizioni di vita degli europei, consentisse all’economia di ricomporre ciò che la politica aveva frantumato. E così è stato anche per l’Italia, trasformatasi in pochi decenni da Paese agricolo in grande Paese industriale. Ma ora non basta più.
In conclusione, l’Italia, che nel 2019 avrà un tasso di crescita del Pil dello 0,2 per cento, invece di mettere in campo politiche per rilanciare il mercato europeo, potrebbe inviare al Parlamento europeo più di 2/3 di rappresentanti sovranisti impegnati ad indebolire quest'ultimo. L’Europa integrata, che è stata costruita per lasciare alla storia i ricordi come il discorso di Mussolini del 10 giugno 1940 con le sue drammatiche conseguenze, è oggi diventata la causa del malessere di molti italiani (ed europei). Per quanto l’economia sia necessaria, essa (da sola) non può essere sufficiente ad addomesticare gli spiriti nazionalisti risorti in alcuni Paesi europei, tra cui il nostro. È ora di domandarsi, quale politica può salvare l’economia europea (e non solo viceversa)?