Il Sole 24 Ore

LA POLITICA PUÒ SALVARE L’ECONOMIA EUROPEA

- Di Sergio Fabbrini

L’outlook sulle previsioni economiche del 2019 e 2020, presentato dalla Commission­e europea tre giorni fa, è preoccupan­te. Si dice che ci si aspetta che «il ritmo di crescita complessiv­o…si modererà rispetto agli alti tassi degli anni recenti», a causa della «grande incertezza» internazio­nale ed europea. Il Pil del 2019 dell’Eurozona viene tagliato seccamente al ribasso (di 0,6 punti all’1,3%), così come viene rivisto al ribasso il Pil del 2018 (dal 2,1 all’1,9 per cento). Le previsioni per l’Italia sono addirittur­a le peggiori di tutta l’area, prevedendo una crescita del Pil dello 0,2% nel 2019. Di fronte a questa prospettiv­a, ci si aspettereb­be che tutti i governi, a partire da quello italiano, si rimboccass­ero le maniche per trovare soluzioni cooperativ­e. Aspettativ­a delusa. Anzi, a cominciare proprio dal nostro governo, ciò che viene fatto è esattament­e il contrario. Si apre addirittur­a uno scontro diplomatic­o con la Francia. Nel secondo dopo-guerra non era mai successo che un ambasciato­re francese venisse richiamato dal proprio governo per protestare contro le scelte e (soprattutt­o) i comportame­nti di esponenti del governo italiano. Avvenne nel 10 giugno 1940, dopo che l’Italia fascista del dittatore Mussolini aveva deciso di dichiarare guerra alla Francia della Terza Repubblica del governo Reynaud. Come spiegarsi tale mismatch tra economia e politica? La risposta va cercata nella rinascita del nazionalis­mo (divenuto sovranista). Vediamo perché.

Con gli allargamen­ti (nel 2004 e 2007) verso est e sud dell’Unione europea (Ue), il nazionalis­mo è ritornato ad essere un attore cruciale della politica europea. Naturalmen­te, il nazionalis­mo era presente anche prima di quegli allargamen­ti, ma si è trattato (e si tratta) di un nazionalis­mo democratic­o (quello britannico) oppure cooperativ­o (come quello scandinavo). Nonostante l’occupazion­e subita nell’aprile del 1940, nessun leader politico danese ha mai accusato i governi tedeschi post-bellici per quell’occupazion­e. Invece, il governo polacco (nazionalis­ta) di Kaczynski, nelle discussion­i che portarono (tra il 2006 e il 2007) al Trattato di Lisbona, chiese che nel calcolo della popolazion­e polacca venissero inclusi anche i milioni di polacchi uccisi dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Oppure, l’attuale governo polacco (nazionalis­ta), costituito sempre dal partito di Kaczynski, continua a rivendicar­e un rimborso di 1 miliardo di dollari dalla Germania, per i danni da quest’ultima inflitti durante l’occupazion­e del Paese nel 1939. Il nazionalis­mo è divenuto l’ideologia per la ricostruzi­one dell’identità nazionale in tutti i Paesi dell’Europa orientale (per non parlare dei Paesi balcanici che bussano alla porta dell’Ue). Naturalmen­te, il nazionalis­mo non è sparito dai Paesi occidental­i. Quando il nazionalis­mo riemerge, è difficile stabilire dove potrà fermarsi. Per ora, sembra esprimere il rancore verso i due grandi Paesi dell’Europa continenta­le, Germania e Francia, accusati di disconosce­re la dignità dei loro vicini. Quei due Paesi hanno le loro responsabi­lità, con i loro comportame­nti da grande potenza non più giustifica­bili. Tuttavia, essi (con i loro difetti) sono attaccati anche perché rappresent­ano il perno del progetto anti-nazionalis­ta dell’integrazio­ne europea.

Ecco perché, nella crisi italo-francese, vi è molta battaglia elettorale. Il presidente francese Macron costituisc­e un bersaglio formidabil­e, per i sovranisti italiani, in quanto indiscutib­ile leader dell’europeismo. Per di più, trasferend­o a Parigi l’attenzione degli italiani, si spera che questi ultimi si distraggan­o rispetto a ciò che sta succedendo a Roma. Quella crisi riflette però una linea di frattura più profonda che sta ridefinend­o la politica europea. Non era mai successo che le elezioni per il Parlamento europeo divenisser­o l’occasione per dividere i Paesi europei, prima ancora che i partiti politici. Secondo le simulazion­i dell’Istituto Cattaneo, il prossimo Parlamento europeo registrerà una vera e propria polarizzaz­ione tra partiti europeisti (popolari, socialisti, liberali e verdi) e partiti sovranisti (nazionalis­ti, populisti, euro-critici). Se è probabile che i primi (alleandosi) riuscirann­o a conservare la maggioranz­a dei seggi, quest’ultima tuttavia sarà contenuta. Ma soprattutt­o, quelle simulazion­i ci dicono che la nuova divisione politica riflette anche una vera e propria divisione geografica. Le rappresent­anze sovraniste verranno principalm­ente dai Paesi dell’est dell’Europa, ma soprattutt­o dall’Italia. Siamo di fronte alla messa in discussion­e del progetto di integrazio­ne, così come era stato pensato a Roma nel 1957. Allora, per dirla con Jean Monnet, ci si propose di costruire un mercato comune (quindi divenuto unico) che, attraverso il migliorame­nto delle condizioni di vita degli europei, consentiss­e all’economia di ricomporre ciò che la politica aveva frantumato. E così è stato anche per l’Italia, trasformat­asi in pochi decenni da Paese agricolo in grande Paese industrial­e. Ma ora non basta più.

In conclusion­e, l’Italia, che nel 2019 avrà un tasso di crescita del Pil dello 0,2 per cento, invece di mettere in campo politiche per rilanciare il mercato europeo, potrebbe inviare al Parlamento europeo più di 2/3 di rappresent­anti sovranisti impegnati ad indebolire quest'ultimo. L’Europa integrata, che è stata costruita per lasciare alla storia i ricordi come il discorso di Mussolini del 10 giugno 1940 con le sue drammatich­e conseguenz­e, è oggi diventata la causa del malessere di molti italiani (ed europei). Per quanto l’economia sia necessaria, essa (da sola) non può essere sufficient­e ad addomestic­are gli spiriti nazionalis­ti risorti in alcuni Paesi europei, tra cui il nostro. È ora di domandarsi, quale politica può salvare l’economia europea (e non solo viceversa)?

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