Comesi educano i mamelucchi
«Le gemme della memoria», capolavoro della letteratura persiana appena tradotto, è un cosmorama in forma di racconti per istruire i principi turchi
Che i racconti possano essere un formidabile mezzo educativo è stata convinzione assai diffusa e radicata sotto ogni cielo; l’esempio asiatico forse più noto in Occidente è il Pañcatantra indiano (IV-VI secolo d.C.), programmaticamente inteso quale corso accelerato di scienze politiche per gli svogliati figli del re del Deccan. Ma l’intento qui faceva parte a sua volta della finzione narrativa; ben diverso è il caso di uno dei capolavori della letteratura persiana, Le
gemme della memoria di Sadid al-Din Muhammad ’Awfi, appena uscito presso Einaudi a cura di Stefano Pellò. Come mostra lo studioso nel suo ampio saggio introduttivo sviluppato con raffinata intelligenza critica e metodi aggiornati, si tratta infatti di «un’enciclopedia storico-narrativa: una sorta di opera-mondo che sceglie la forma del hikayat/riwayat [cioè della raccolta di racconti] per proporre una summa insieme descrittiva e prescrittiva sull’uomo e sul cosmo». Un cosmorama, come pure felicemente lo definisce il curatore, che va in primo luogo considerato «come un lemmario universale dell’impero per l’educazione dei principi turchi mamluk» ossia di quegli schiavi-soldati che hanno dato luogo a dinastie governanti anche per lunghi periodi in vaste zone dell’Asia. Qui ci riferiamo in particolare alla dinastia iniziata alla fine del XII secolo da Qutb al-Din Aibak che fonda il sultanato di Delhi, poi consolidato dal suo successore Iltutmish (r. 1211-1236). L’autore delle
Gemme, ’Awfi, serve dal 1205 al 1228 il governatore del Sindh, pure un militare turco mamluk, fungendo anche da qadi, “giudice”, della città portuale di Cambay in Gujarat; sconfitto il suo protettore appunto da parte di Iltutmish, il letterato passa a Delhi al servizio di quest’ultimo. Qui termina la sua opera, che possiamo per brevità chiamare Jawami’ dal titolo originale, dedicandola al primo ministro del sultanato. ’Awfi aveva in precedenza studiato a Bukhara e viaggiato «come letterato di corte itinerante fra l’Asia centrale, l’Iran orientale e l’Afghanistan»: una vita dunque, la sua, di frequenti peregrinazioni dall’una all’altra corte, fitta di incontri con grandi maestri spirituali, ministri, politici, poeti, medici, astronomi che gli procurano la grande parte della ricca e varia documentazione intellettuale da lui collezionata nella sua funzione di “archivio mobile” (l’espressione brillante è di Pellò) e poi riversata nella sua opera straordinaria. Che oltre
tutto ha pure il merito di avere salvaguardato e trasmesso parte dei contenuti di opere depositate nelle grandi biblioteche centroasiatiche di lì a poco devastate dall’invasione mongola.
Il Jawami’, termine che si può rendere con «insieme, raccolta», è formato da oltre duemila aneddoti divisi in quattro sezioni tematicamente identificate dall’autore, ciascuna di 25 capitoli sempre intitolati e prefati da ’Awfi: il volume einaudiano, al quale si deve la prima conoscenza in Italia di questo prezioso caleidoscopio letterario, è antologico, concentrandosi sulle sezioni seconda e terza dell’originale dedicate rispettivamente alle virtù e ai vizi dell’uomo. Protagonisti e scenari degli aneddoti, di dimensione diseguale, popolano un orizzonte geografico e temporale estesissimo: così non mancano Nabucodonosor e il profeta Daniele, Alessandro Magno, Aristotele e Ippocrate, Zoroastro e l’imperatore persiano Anushirwan, gli ebrei di Medina contemporanei di Muhammad, l’India e la Cina, i califfi di diverse dinastie, i già ricordati sultani di Delhi Aibak e Iltutmish contemporanei all’autore. E non mancano gli anonimi di ogni epoca e paese, come l’ancella bellissima, ma soprat- tutto saggia e psicologa penetrante; o come il tale che ha la vocazione del furto (o così crede) e si presenta al maestro più accreditato in quella scienza (sic!); rinuncia tuttavia agli studi (esempio precoce di mortalità accademica) non appena gli viene imposto di mangiare con la sinistra; perché i ladri – gli spiega il docente – prima o poi sono beccati e la punizione è il taglio della mano destra: meglio abituarsi in anticipo se si vorrà poi continuare la carriera!
La scrittura è scorrevole, opportunamente sofisticata piuttosto che trasandata a seconda dei soggetti e dei contesti, ciascuna delle Gemme
della memoria è un frammento rilucente. L’insieme, dove non esistono confini fra realtà e fantasia né successioni cronologiche obiettive, sciorina dinanzi al lettore ammaliato la fantasmagoria dei mille personaggi che incarnano i vizi e le virtù umane
e dei loro imprevedibili casi. Il «Jawami’, specchio del mondo per l’educazione di una nuova élite transregionale» è fra i capolavori che inaugurano la grande e molteplice corrente della letteratura indo-persiana. Fenomeno culturale ben poco noto in Occidente, però di incalcolabile portata non solo linguistico-letteraria ma anche religiosa, politica, sociale, amministrativa: nel più ampio quadro di un cosmopolitismo spesso tollerante, al quale oggi nel nostro Paese sarebbe molto salutare ispirarsi, il persiano diventerà in India dal 1582 e fino all’epoca coloniale la lingua ufficiale dell’impero Mughal. E contribuirà in maniera determinante al
l’origine degli studi indiani in Europa, come emblematicamente mostra
la storia di un testo decisivo anche
nella cultura europea: le Upanishad, pubblicate (1771) in traduzione francese da Anquetil-Duperron a partire appunto da una famosa versione persiana dal sanscrito.