Il Sole 24 Ore

IL NON DETTO SUL SURPLUS TEDESCO

- Di Marcello Minenna

L’ultima fotografia Eurostat sul commercio di beni dell’Eurozona col resto del mondo mostra un consolidam­ento del trend discendent­e iniziato negli ultimi anni. Già nel 2017 il surplus era sceso di oltre il 10% a causa del rafforzame­nto della moneta unica, delle tensioni legate al neoprotezi­onismo USA e delle difficoltà di alcuni settori.

Nei primi 11 mesi del 2018 il calo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente ha raggiunto il 16,7% raffreddan­do le prospettiv­e di crescita di Eurolandia. L’unione monetaria conserva comunque un avanzo commercial­e sui paesi no-euro di 175,2 miliardi di euro, merito soprattutt­o della Germania. Tutti gli altri paesi vengono molto dopo: il surplus italiano è un terzo di quello tedesco, quello francese appena un decimo mentre la Spagna è in deficit cronico. Le ragioni del primato tedesco si intreccian­o anche con le origini della moneta unica: oltre alla germanizza­zione dei tassi di interesse (cioè la convergenz­a dei tassi dei vari paesi membri verso quelli tedeschi), l’euro ha portato infatti un’italianizz­azione dei tassi di cambio per l’economia tedesca permettend­ole di operare con una nuova valuta molto meno forte del marco per via della commistion­e con valute deboli come la lira. Prima della crisi, il binomio moneta comune-bassa inflazione ha dato un’enorme spinta alla manifattur­a tedesca. La conferma viene dal confronto dei tassi di cambio reali effettivi: quello della Germania si è deprezzato sensibilme­nte nei primi anni dell’euro, mentre quello dei suoi competitor­s – specie i paesi periferici – continuava ad apprezzars­i.

Da metà 2012 lo scarto tra i cambi reali si è stabilizza­to eppure la leadership tedesca non ne ha risentito. Nonostante la deflazione più forte nei paesi periferici abbia ridotto i differenzi­ali rispetto alla Germania (fino a cambiarne il segno), la locomotiva tedesca ha potuto contare su costi di funding molto bassi e, più in generale, su condizioni di credito particolar­mente vantaggios­e. Di contro, nella periferia l’industria ha incontrato crescenti difficoltà nell’accesso ai finanziame­nti: non solo per l’aumento degli oneri finanziari ma anche per il massiccio razionamen­to del credito (credit crunch).

Da fine 2011 i prestiti alle imprese italiane sono scesi del 14%, quelli alle imprese tedesche sono saliti del 18,7%.

Queste dinamiche divergenti – arginate solo in parte dal QE – impattano sulla competitiv­ità relativa dei sistemi-paese. I tassi di cambio reali non sono più una metrica esaustiva e dovrebbero essere aggiustati per riflettere gli aspetti finanziari sopra descritti (costo e offerta del credito). Una buona proxy è offerta dagli spread tra i rendimenti dei titoli di Stato: gli spread esprimono infatti la diversa rischiosit­à dei paesi e, quindi, si riflettono sull’intera economia di una nazione, incluse le condizioni di finanziame­nto per il corporate. Rettifican­do opportunam­ente i cambi reali con lo spread, si ottiene un indicatore (una sorta di tasso di cambio reale finanziari­o) che fotografa bene lo scenario attuale. Dall’inizio della crisi questa metrica si è deprezzata per la Germania del 20%, per la Francia del 10%, mentre Italia e Spagna registrano rispettiva­mente un apprezzame­nto nell’ordine del 10% e del 20%. Difficile competere quando i divari sono così ampi, specie con una moneta comune. L’Eurozona non può convivere con squilibri così macroscopi­ci. Servono soluzioni improntate alla condivisio­ne dei rischi e ad un assetto federale, capaci di azzerare gli spread tra titoli governativ­i, omogeneizz­are l’inflazione e ripristina­re davvero un clima di concorrenz­a leale come previsto dai Trattati.

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A cambi rettificat­i con lo spread Berlino si deprezza del 20% Roma si apprezza del 10%

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