IL NON DETTO SUL SURPLUS TEDESCO
L’ultima fotografia Eurostat sul commercio di beni dell’Eurozona col resto del mondo mostra un consolidamento del trend discendente iniziato negli ultimi anni. Già nel 2017 il surplus era sceso di oltre il 10% a causa del rafforzamento della moneta unica, delle tensioni legate al neoprotezionismo USA e delle difficoltà di alcuni settori.
Nei primi 11 mesi del 2018 il calo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente ha raggiunto il 16,7% raffreddando le prospettive di crescita di Eurolandia. L’unione monetaria conserva comunque un avanzo commerciale sui paesi no-euro di 175,2 miliardi di euro, merito soprattutto della Germania. Tutti gli altri paesi vengono molto dopo: il surplus italiano è un terzo di quello tedesco, quello francese appena un decimo mentre la Spagna è in deficit cronico. Le ragioni del primato tedesco si intrecciano anche con le origini della moneta unica: oltre alla germanizzazione dei tassi di interesse (cioè la convergenza dei tassi dei vari paesi membri verso quelli tedeschi), l’euro ha portato infatti un’italianizzazione dei tassi di cambio per l’economia tedesca permettendole di operare con una nuova valuta molto meno forte del marco per via della commistione con valute deboli come la lira. Prima della crisi, il binomio moneta comune-bassa inflazione ha dato un’enorme spinta alla manifattura tedesca. La conferma viene dal confronto dei tassi di cambio reali effettivi: quello della Germania si è deprezzato sensibilmente nei primi anni dell’euro, mentre quello dei suoi competitors – specie i paesi periferici – continuava ad apprezzarsi.
Da metà 2012 lo scarto tra i cambi reali si è stabilizzato eppure la leadership tedesca non ne ha risentito. Nonostante la deflazione più forte nei paesi periferici abbia ridotto i differenziali rispetto alla Germania (fino a cambiarne il segno), la locomotiva tedesca ha potuto contare su costi di funding molto bassi e, più in generale, su condizioni di credito particolarmente vantaggiose. Di contro, nella periferia l’industria ha incontrato crescenti difficoltà nell’accesso ai finanziamenti: non solo per l’aumento degli oneri finanziari ma anche per il massiccio razionamento del credito (credit crunch).
Da fine 2011 i prestiti alle imprese italiane sono scesi del 14%, quelli alle imprese tedesche sono saliti del 18,7%.
Queste dinamiche divergenti – arginate solo in parte dal QE – impattano sulla competitività relativa dei sistemi-paese. I tassi di cambio reali non sono più una metrica esaustiva e dovrebbero essere aggiustati per riflettere gli aspetti finanziari sopra descritti (costo e offerta del credito). Una buona proxy è offerta dagli spread tra i rendimenti dei titoli di Stato: gli spread esprimono infatti la diversa rischiosità dei paesi e, quindi, si riflettono sull’intera economia di una nazione, incluse le condizioni di finanziamento per il corporate. Rettificando opportunamente i cambi reali con lo spread, si ottiene un indicatore (una sorta di tasso di cambio reale finanziario) che fotografa bene lo scenario attuale. Dall’inizio della crisi questa metrica si è deprezzata per la Germania del 20%, per la Francia del 10%, mentre Italia e Spagna registrano rispettivamente un apprezzamento nell’ordine del 10% e del 20%. Difficile competere quando i divari sono così ampi, specie con una moneta comune. L’Eurozona non può convivere con squilibri così macroscopici. Servono soluzioni improntate alla condivisione dei rischi e ad un assetto federale, capaci di azzerare gli spread tra titoli governativi, omogeneizzare l’inflazione e ripristinare davvero un clima di concorrenza leale come previsto dai Trattati.
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A cambi rettificati con lo spread Berlino si deprezza del 20% Roma si apprezza del 10%