«La vera immagine nasce dall’equilibrio particolare-universale»
Con lo smartphone tutti diventano fotografi: mai come oggi l’immagine è strumento di dialogo e di conoscenza, di condivisione e di identificazione. «Fare foto è semplicissimo e complicatissimo. Tutti siamo fotografi con il telefonino, ma una buona foto è la somma di tante cose, alla fine è l’espressione di un pensiero». Paolo Pellegrin è uno dei tre italiani ammessi nell’empireo dell’Agenzia Magnum: «Il frame giusto nasce dalla magia della creazione: la tecnica e i riferimenti fotografici e culturali stanno dietro al mio sguardo che si trasforma misteriosamente in incontro con i frammenti del reale, che cambia ogni volta, come noi stessi cambiamo».
Difficile dire quale sia il segreto della scintilla che fa scattare quel mistero creativo. Per Henri CartierBresson la fotografia perfetta nasce dall’allineamento tra mente, cuore e soggetto. Lo strumento sembra quasi diventare secondario. «Senza dubbio c’è una comunicazione non verbale con il soggetto, mediante un linguaggio universale che si crea nell’istante». Pellegrin parla a margine dell’evento di lancio delle nuove fotocamere mirrorless di Canon (di cui è ambassador), che sancisce un ulteriore passo nella transizione dei grandi produttori verso la tecnologia che sta spodestando le reflex. Il fotografo della Magnum si è ritagliato un anno sabbatico per dedicarsi all’allestimento della sua prima antologica, in corso a Roma al MAXXI fino al 10 marzo. Da Gaza a Beirut, da El Paso a Tokyo, da Roma a Lesbo sono tanti i luoghi dove Pellegrin ha fermato il suo sguardo sull’essere umano, nelle sue relazioni con la storia e gli altri esseri umani, a documentare le grandi emergenze di questi anni. Fin alla fragilità dell’Antartide azzannato dal climate change. Viaggi raccantati anche nei disegni e negli appunti di decine di taccuini esposti a fianco della mostra per testimoniare l’evolversi del racconto che diventa immagine,
L’ultimo suo lavoro di rilievo è “Fractured Lands”, un reportage fatto in copia con il giornalista Scott Anderson per il New York Times per raccontare la disillusione del Medio Oriente ridisegnato dalle primavere arabe: le origini, i conflitti, le rivolte, l’Isis, le migrazioni, raccontati attraverso sei personaggi, emersi quasi per caso dai loro viaggi: «Ognuno di loro ha una doppia figura: la sua storia individuale che si trasforma in metafora di una storia più grande. Dal punto di vista fotografico - prosegue con la discreta ritrosia di chi preferisce esprimersi con sturmenti diversi dalla parola l’obiettivo era fare quella cosa che a volta riesce alla fotografia, trovare un equilibrio tra il particolare e l’universale, di immortalare un momento del presente che contenga anche il desiderio di trascenderlo».
Di fronte alla pervasività della fotografia nell’epoca contemporanea, l’immagine deve avere la capacità di “arrestare” lo spettatore: «C’è spazio, e bisogno, di una fotografia con tempi più lunghi, in grado di avviare un dialogo con chi “legge”, superando il limite della passività dell’immagine». Anche la fotografia documena e approfondisce.