Disuguaglianza figlia di un sistema squilibrato
Le riflessioni di Colin Mayer e Mariana Mazzucato
Il capitalismo sembra essere entrato in crisi proprio dopo aver vinto la battaglia durata per tutto il Novecento con il socialismo più o meno reale. Persino «The Economist» recentemente ha dedicato copertina e articoli di fondo alla necessità di una “rivoluzione del capitalismo” (ovviamente dall’interno: Lenin non c’entra) perché crisi finanziarie ricorrenti, crescita modesta e disuguaglianza crescente alimentano sempre di più, dice l’autorevole settimanale, la sensazione di «un sistema squilibrato a favore dei proprietari del capitale a spese dei lavoratori». E le derive nazionaliste e populiste sono l’immediata conseguenza, come la storia insegna.
Cosa è successo? Quali sono le cause di distorsioni e inefficienze così profonde? Ce lo spiegano due libri che affrontano due pilastri delle economie di mercato: il concetto di valore economico e l’impresa. Mariana Mazzucato sviluppa tesi già espresse in Ripensare il capitalismo partendo da uno dei temi centrali della macroeconomia, fin dai classici dell’Ottocento: la teoria del valore. Ci mostra come il confine fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo (quindi fra chi crea valore e chi se ne appropria) si sia continuamente spostato nel tempo in relazione alle modificazioni strutturali della società e all’influsso delle teorie economiche di tempo in tempo dominanti. Oggi sono azionisti e manager che in nome dello shareholder value si appropriano della maggior parte del valore: la finanziarizzazione dell’economia ha affidato al mercato e ai prezzi che esso esprime per le azioni la misura del valore e il parametro per la sua distribuzione.
Colin Mayer, che già in un libro precedente aveva indicato «come l’impresa ci sta ingannando», cioè ha tradito la sua missione fondamentale, nella sua nuova opera approfondisce l’analisi delle distorsioni indotte dalla teoria economica e dalla regolamentazione sul funzionamento delle imprese di oggi. Le teorie economiche dominanti degli ultimi decenni, fra i tanti soggetti che ruotano intorno all’impresa, hanno privilegiato gli azionisti, cioè i fornitori di capitale. Tutti gli altri stakeholder sono passati in secondo piano e il profitto è diventato al tempo stesso l’obiettivo primario e la misura del successo. Per tutti gli altri portatori di interesse ci pensa la regolamentazione: l’impresa viene vista come un coacervo di contratti ciascuno dei quali tutela i vari soggetti coinvolti nelle operazioni correnti: lavoratori, fornitori, clienti, comunità, ambiente. Con il paradosso che essendo questi interessi sempre più fragili, la regolamentazione diventa sempre più complessa, farraginosa e costosa. Una sorta di contrappasso per l’approccio neo-liberista puro.
Nella visione di oggi, l’impresa deve massimizzare il profitto cioè la remunerazione degli azionisti che sopportano il rischio finale. Con un’analisi molto raffinata, l’autore ci mostra che il concetto di shareholder value con le sue distorsioni è figlio della visione strettamente neo-liberista di Milton Friedman che si riassume nel celebre motto: «The business of business is business».
Ma non deve necessariamente essere così e di fatto le imprese non hanno sempre agito seguendo queste logiche, ci dice Mayer. Le imprese sono state gestite per produrre ricchezza collettiva, per coltivare valori generali o anche solo familiari, per consolidare rapporti fiduciari, per migliorare le comunità in cui operano. Viene in mente Adriano Olivetti ovviamente, ma anche tante esperienze italiane e straniere meno famose. Del resto, quando i tedeschi sognavano ancora di proporre un modello di ”capitalismo ben temperato” e cercavano armonie bachiane nel tessuto economico affermavano che il fine delle imprese di navigazione era quello di far viaggiare i battelli in orario e che il profitto era solo un mezzo rispetto a quel fine.
Le analisi di Mayer e Mazzucato sono troppo raffinate per essere trattate alla stregua di utopie dettate dal pessimismo sulle tendenze generali dell’economia. Prima di tutto per la solidità del loro impianto teorico e soprattutto perché la loro diagnosi appare difficilmente contestabile: le esternalità negative in termini ecologici, la disuguaglianza crescente che ha distrutto i ceti medi e con essi uno dei pilastri delle moderne democrazie, il gigantismo incontrollabile dei grandi soggetti delle nuove tecnologie non derivano solo dall’uso distorto del concetto di valore o dei fini d’impresa. Ma certo le deviazioni che hanno portato all’angosciata analisi di «The Economist» hanno cause profonde che gli autori individuano con grande chiarezza. Questi due libri meritano quindi un’attenta considerazione e se qualcuno pensa si tratti di una delle tante battaglie perdute, ricordi James Stewart di Mr. Smith va a Washington: «Sono le uniche che meritano di essere combattute».