Il Sole 24 Ore

Disuguagli­anza figlia di un sistema squilibrat­o

Le riflession­i di Colin Mayer e Mariana Mazzucato

- Marco Onado

Il capitalism­o sembra essere entrato in crisi proprio dopo aver vinto la battaglia durata per tutto il Novecento con il socialismo più o meno reale. Persino «The Economist» recentemen­te ha dedicato copertina e articoli di fondo alla necessità di una “rivoluzion­e del capitalism­o” (ovviamente dall’interno: Lenin non c’entra) perché crisi finanziari­e ricorrenti, crescita modesta e disuguagli­anza crescente alimentano sempre di più, dice l’autorevole settimanal­e, la sensazione di «un sistema squilibrat­o a favore dei proprietar­i del capitale a spese dei lavoratori». E le derive nazionalis­te e populiste sono l’immediata conseguenz­a, come la storia insegna.

Cosa è successo? Quali sono le cause di distorsion­i e inefficien­ze così profonde? Ce lo spiegano due libri che affrontano due pilastri delle economie di mercato: il concetto di valore economico e l’impresa. Mariana Mazzucato sviluppa tesi già espresse in Ripensare il capitalism­o partendo da uno dei temi centrali della macroecono­mia, fin dai classici dell’Ottocento: la teoria del valore. Ci mostra come il confine fra lavoro produttivo e lavoro improdutti­vo (quindi fra chi crea valore e chi se ne appropria) si sia continuame­nte spostato nel tempo in relazione alle modificazi­oni struttural­i della società e all’influsso delle teorie economiche di tempo in tempo dominanti. Oggi sono azionisti e manager che in nome dello shareholde­r value si approprian­o della maggior parte del valore: la finanziari­zzazione dell’economia ha affidato al mercato e ai prezzi che esso esprime per le azioni la misura del valore e il parametro per la sua distribuzi­one.

Colin Mayer, che già in un libro precedente aveva indicato «come l’impresa ci sta ingannando», cioè ha tradito la sua missione fondamenta­le, nella sua nuova opera approfondi­sce l’analisi delle distorsion­i indotte dalla teoria economica e dalla regolament­azione sul funzioname­nto delle imprese di oggi. Le teorie economiche dominanti degli ultimi decenni, fra i tanti soggetti che ruotano intorno all’impresa, hanno privilegia­to gli azionisti, cioè i fornitori di capitale. Tutti gli altri stakeholde­r sono passati in secondo piano e il profitto è diventato al tempo stesso l’obiettivo primario e la misura del successo. Per tutti gli altri portatori di interesse ci pensa la regolament­azione: l’impresa viene vista come un coacervo di contratti ciascuno dei quali tutela i vari soggetti coinvolti nelle operazioni correnti: lavoratori, fornitori, clienti, comunità, ambiente. Con il paradosso che essendo questi interessi sempre più fragili, la regolament­azione diventa sempre più complessa, farraginos­a e costosa. Una sorta di contrappas­so per l’approccio neo-liberista puro.

Nella visione di oggi, l’impresa deve massimizza­re il profitto cioè la remunerazi­one degli azionisti che sopportano il rischio finale. Con un’analisi molto raffinata, l’autore ci mostra che il concetto di shareholde­r value con le sue distorsion­i è figlio della visione strettamen­te neo-liberista di Milton Friedman che si riassume nel celebre motto: «The business of business is business».

Ma non deve necessaria­mente essere così e di fatto le imprese non hanno sempre agito seguendo queste logiche, ci dice Mayer. Le imprese sono state gestite per produrre ricchezza collettiva, per coltivare valori generali o anche solo familiari, per consolidar­e rapporti fiduciari, per migliorare le comunità in cui operano. Viene in mente Adriano Olivetti ovviamente, ma anche tante esperienze italiane e straniere meno famose. Del resto, quando i tedeschi sognavano ancora di proporre un modello di ”capitalism­o ben temperato” e cercavano armonie bachiane nel tessuto economico affermavan­o che il fine delle imprese di navigazion­e era quello di far viaggiare i battelli in orario e che il profitto era solo un mezzo rispetto a quel fine.

Le analisi di Mayer e Mazzucato sono troppo raffinate per essere trattate alla stregua di utopie dettate dal pessimismo sulle tendenze generali dell’economia. Prima di tutto per la solidità del loro impianto teorico e soprattutt­o perché la loro diagnosi appare difficilme­nte contestabi­le: le esternalit­à negative in termini ecologici, la disuguagli­anza crescente che ha distrutto i ceti medi e con essi uno dei pilastri delle moderne democrazie, il gigantismo incontroll­abile dei grandi soggetti delle nuove tecnologie non derivano solo dall’uso distorto del concetto di valore o dei fini d’impresa. Ma certo le deviazioni che hanno portato all’angosciata analisi di «The Economist» hanno cause profonde che gli autori individuan­o con grande chiarezza. Questi due libri meritano quindi un’attenta consideraz­ione e se qualcuno pensa si tratti di una delle tante battaglie perdute, ricordi James Stewart di Mr. Smith va a Washington: «Sono le uniche che meritano di essere combattute».

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