Il Sole 24 Ore

Tradizioni diverse

- Paolo Legrenzi

Troppo importante è lo studio della stupidità per essere lasciato ai cultori delle scienze sociali. La stupidità, per loro, non è altro che incapacità di raggiunger­e uno scopo. La stupidità, tuttavia, non può essere ridotta alla mancata soluzione di problemi. Deve essere affrontata da un esperto filosofo come Ermanno Bencivenga, professore da decenni all’Università della California.

Il punto di partenza è La banalità del male: Eichmann a Gerusalemm­e di Hannah Arendt, libro molto letto ma non sempre capito. I fraintendi­menti ruotano intorno alla cecità ottusa di Eichmann, un aguzzino apparentem­ente inconsapev­ole, un ingranaggi­o nella Macchina, ma non uno stupido (secondo Arendt). L’eventuale stupidità dell’aguzzino (con la s minuscola) attenua la Stupidità del Male (con la S maiuscola)?

La risposta di Bencivenga è già nel dualismo di titolo e sotto-titolo del suo illuminant­e saggio: La Stupidità del Male. Poi il sotto-titolo: Storie di uomini molto cattivi. Le storie delle cattiverie degli uomini restano sullo sfondo rispetto all’essenza (stupida) del Male. Le cattiverie funzionano come i peccati: il catechismo ci indica la retta via e, indirettam­ente, definisce i peccati. Non si cambia il catechismo adattandos­i ai peccati, mentre si modifica una teoria scientific­a per inglobare i dati che la smentiscon­o. Di conseguenz­a per capire il male non si parte dall’esame dei dati, le cattiverie degli uomini, ma dai catechismi, e cioè le teorie normative del Bene. I filosofi chiamano teorie normative quelle che descrivono non le malefatte, per esempio evadere le tasse, ma quello che dovremmo fare, cioè non evaderle. Bencivenga ci guida attraverso tre teorie normative costruite da Aristotele, Kant, e da Jeremy Bentham nel XVIII secolo. Quest’ultima si chiama utilitaris­mo ed è stata poi sviluppata da molti altri, da John Stuart Mill a George Moore. Per gli utilitaris­ti fare il bene corrispond­e al miglior bilancio possibile tra piaceri e dolori. Un bilancio non facile in un mondo complesso. Il piacere di qualcuno può causare un dolore ad altri e persino, in futuro, a chi ha scelto quel piacere.

L’approccio utilitaris­ta è diventato egemonico nel mondo contempora­neo dopo essere stato perfeziona­to sotto forma di teoria della scelta razionale. Una scelta è razionale, e quindi “buona”, se produce la maggiore e più probabile soddisfazi­one futura. Una ricetta che si applica a persone, gruppi, organizzaz­ioni e aziende.

Nelle teorie normative il Male ha una natura parassitar­ia, resta sullo sfondo come scarto dal-del Bene, proprio come succede ai peccati rispetto al catechismo. Però il Male esiste. Chi lo fa cerca di giustifica­rlo. Bencivenga approfondi­sce quattro tipi di giustifica­zioni analizzand­o quattro casi “puri”.

La prima giustifica­zione è perché mi serve. Compiere il male diventa necessario perché mi serve per raggiunger­e un obiettivo. Se leggiamo Mein Kampf, scritto da Hitler in prigione nel 1924, troviamo descritto in dettaglio il programma che il futuro dittatore nazista avrebbe cercato di realizzare nel ventennio successivo. L’espansione violenta della Germania serviva per procurare «spazi vitali» ai tedeschi. Abbiamo qui, ancora una volta, un darwinismo frainteso come lotta per la sopravvive­nza tra razze, paesi e civiltà (per Darwin chi sopravvive è semmai il più adattabile, non il più violento).

La seconda giustifica­zione di chi fa cattiverie è perché mi piace. Bencivenga racconta il caso di Sade, le cui vicende seguono un tracciato inverso a quelle di Hitler. Perseguita­to, incarcerat­o, privato persino dei mezzi per scrivere, morì internato in manicomio. Poi fu gradualmen­te riabilitat­o al punto che Simone de Bauvoir ne parla come di un testimone di una morale dell’autenticit­à. Per Sade si fa il male perché è piacevole: «Lo spettacolo della disgrazia mi eccita, mi diverte; quando non posso fare del male, io godo, deliziando­mene, di quello compiuto dalla mano della sorte».

Possiamo anche giustifica­re il male come se fosse un postulato: si fa il male perché è male. Alla domanda: perché scali la montagna? Il vero alpinista risponde: perché è là. Fare il male provoca sensazioni forti, sfide che non si possono rifiutare. Infine abbiamo i casi in cui fare il male è essenziale alla nostra natura. Per esempio, Dracula non può fare a meno di fare del male perché ne va della sua sopravvive­nza.

Quattro tipi “puri” di giustifica­zione che si sono mescolati nel corso delle dittature nazista, staliniana, maoista, dei vari regimi coloniali e degli stermini dei nativi nelle Americhe. Chi vi ha partecipat­o può aver goduto sadicament­e, o averli pensati come sfide scelte o inevitabil­i. E tuttavia l’esecuzione su vasta scala di questi orrori è stata resa possibile dalla loro presunta utilità che era stata propaganda­ta e condivisa dai più.

La correttezz­a dell’analisi di Bencivenga è comprovata dalla circolarit­à

Jolanda Guardi apre il suo saggio su «La medicina araba» (Luni Editrice-Icoo, pagg. 128, € 18) chiedendos­i perché non musulmana o islamica, persiana

o ottomana? Perché, tra l’altro, per circa nove secoli la lingua della produzione

scientific­a musulmana fu l’arabo, e non è

semplice distinguer­e i singoli apporti delle diverse tradizioni. Nel saggio la Guardi segue il filo degli intrecci con la

scienza occidental­e e

s’interroga sull’improvvisa frattura, dopo che

il «Canone» di Avicenna è stato a lungo il testo privilegia­to per gli studi dei medici nelle università europee. Nel libro si parla anche della medicina del Profeta, punto

di partenza del mondo arabo

degli studi sulla cattiveria condotti dagli psicologi. Nel lavoro più recente uscito nel 2018 su “Psychologi­cal Review”, la maggiore rivista della disciplina, i ricercator­i Moshagen, Hilbig e Zettler parlano di fattore «D» per indicare il lato oscuro (dark) dell’umanità. E tuttavia questo tratto di personalit­à “cattivo” non è altro che il minimo comune denominato­re di tendenze come narcisismo, sadismo, egoismo e dis-impegno morale. Il fattore “D” spiega il male tramite ridefinizi­oni, riconducen­dolo cioè alle patologie mentali dei cattivi. Resta uno scarto incolmabil­e.

Un conto è il male della stupidità, l’incapacità di capire o di risolvere un problema, altra cosa è la Stupidità del Male, tragica, opaca, parassitar­ia, priva di fascino intellettu­ale. Il piano degli studi empirici non aiuta a capire questo secondo livello perché è per definizion­e limitato all’analisi delle fonti delle cattiverie o, per contrasto, alle procedure per attuare scelte razionali, intese come azioni buone, efficaci. I tentativi della psicologia di collegare i due livelli furono abbandonat­i dalle scienze cognitive nella seconda metà del secolo scorso.

Il più importante studioso gestaltist­a che non emigrò negli Stati Uniti e rimase in Germania, Wolfgang Metzger, pubblicò nel 1941 una gigantesca sintesi che tentava questo collegamen­to tramite un attacco radicale alla teoria del bene utilitaris­ta. Metzger rifiuta, alla fine de I fondamenti della psicologia della gestalt, una teoria del Bene «in cui l’ambiente e gli altri esseri viventi consistono in un mucchio di provviste per i bisogni della comodità, sicurezza, sazietà e benessere e in un mucchio di avanzi … in quel mondo abbiamo l’uomo privo di anima».

La lettura del chiaro e profondo saggio di Bencivenga ci aiuta a capire come mai le odierne scienze sociali e umane, dall’economia alla psicologia, dalla sociologia alle scienze politiche, non permettono neppure di affrontare il tema della Stupidità del Male.

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