Tradizioni diverse
Troppo importante è lo studio della stupidità per essere lasciato ai cultori delle scienze sociali. La stupidità, per loro, non è altro che incapacità di raggiungere uno scopo. La stupidità, tuttavia, non può essere ridotta alla mancata soluzione di problemi. Deve essere affrontata da un esperto filosofo come Ermanno Bencivenga, professore da decenni all’Università della California.
Il punto di partenza è La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme di Hannah Arendt, libro molto letto ma non sempre capito. I fraintendimenti ruotano intorno alla cecità ottusa di Eichmann, un aguzzino apparentemente inconsapevole, un ingranaggio nella Macchina, ma non uno stupido (secondo Arendt). L’eventuale stupidità dell’aguzzino (con la s minuscola) attenua la Stupidità del Male (con la S maiuscola)?
La risposta di Bencivenga è già nel dualismo di titolo e sotto-titolo del suo illuminante saggio: La Stupidità del Male. Poi il sotto-titolo: Storie di uomini molto cattivi. Le storie delle cattiverie degli uomini restano sullo sfondo rispetto all’essenza (stupida) del Male. Le cattiverie funzionano come i peccati: il catechismo ci indica la retta via e, indirettamente, definisce i peccati. Non si cambia il catechismo adattandosi ai peccati, mentre si modifica una teoria scientifica per inglobare i dati che la smentiscono. Di conseguenza per capire il male non si parte dall’esame dei dati, le cattiverie degli uomini, ma dai catechismi, e cioè le teorie normative del Bene. I filosofi chiamano teorie normative quelle che descrivono non le malefatte, per esempio evadere le tasse, ma quello che dovremmo fare, cioè non evaderle. Bencivenga ci guida attraverso tre teorie normative costruite da Aristotele, Kant, e da Jeremy Bentham nel XVIII secolo. Quest’ultima si chiama utilitarismo ed è stata poi sviluppata da molti altri, da John Stuart Mill a George Moore. Per gli utilitaristi fare il bene corrisponde al miglior bilancio possibile tra piaceri e dolori. Un bilancio non facile in un mondo complesso. Il piacere di qualcuno può causare un dolore ad altri e persino, in futuro, a chi ha scelto quel piacere.
L’approccio utilitarista è diventato egemonico nel mondo contemporaneo dopo essere stato perfezionato sotto forma di teoria della scelta razionale. Una scelta è razionale, e quindi “buona”, se produce la maggiore e più probabile soddisfazione futura. Una ricetta che si applica a persone, gruppi, organizzazioni e aziende.
Nelle teorie normative il Male ha una natura parassitaria, resta sullo sfondo come scarto dal-del Bene, proprio come succede ai peccati rispetto al catechismo. Però il Male esiste. Chi lo fa cerca di giustificarlo. Bencivenga approfondisce quattro tipi di giustificazioni analizzando quattro casi “puri”.
La prima giustificazione è perché mi serve. Compiere il male diventa necessario perché mi serve per raggiungere un obiettivo. Se leggiamo Mein Kampf, scritto da Hitler in prigione nel 1924, troviamo descritto in dettaglio il programma che il futuro dittatore nazista avrebbe cercato di realizzare nel ventennio successivo. L’espansione violenta della Germania serviva per procurare «spazi vitali» ai tedeschi. Abbiamo qui, ancora una volta, un darwinismo frainteso come lotta per la sopravvivenza tra razze, paesi e civiltà (per Darwin chi sopravvive è semmai il più adattabile, non il più violento).
La seconda giustificazione di chi fa cattiverie è perché mi piace. Bencivenga racconta il caso di Sade, le cui vicende seguono un tracciato inverso a quelle di Hitler. Perseguitato, incarcerato, privato persino dei mezzi per scrivere, morì internato in manicomio. Poi fu gradualmente riabilitato al punto che Simone de Bauvoir ne parla come di un testimone di una morale dell’autenticità. Per Sade si fa il male perché è piacevole: «Lo spettacolo della disgrazia mi eccita, mi diverte; quando non posso fare del male, io godo, deliziandomene, di quello compiuto dalla mano della sorte».
Possiamo anche giustificare il male come se fosse un postulato: si fa il male perché è male. Alla domanda: perché scali la montagna? Il vero alpinista risponde: perché è là. Fare il male provoca sensazioni forti, sfide che non si possono rifiutare. Infine abbiamo i casi in cui fare il male è essenziale alla nostra natura. Per esempio, Dracula non può fare a meno di fare del male perché ne va della sua sopravvivenza.
Quattro tipi “puri” di giustificazione che si sono mescolati nel corso delle dittature nazista, staliniana, maoista, dei vari regimi coloniali e degli stermini dei nativi nelle Americhe. Chi vi ha partecipato può aver goduto sadicamente, o averli pensati come sfide scelte o inevitabili. E tuttavia l’esecuzione su vasta scala di questi orrori è stata resa possibile dalla loro presunta utilità che era stata propagandata e condivisa dai più.
La correttezza dell’analisi di Bencivenga è comprovata dalla circolarità
Jolanda Guardi apre il suo saggio su «La medicina araba» (Luni Editrice-Icoo, pagg. 128, € 18) chiedendosi perché non musulmana o islamica, persiana
o ottomana? Perché, tra l’altro, per circa nove secoli la lingua della produzione
scientifica musulmana fu l’arabo, e non è
semplice distinguere i singoli apporti delle diverse tradizioni. Nel saggio la Guardi segue il filo degli intrecci con la
scienza occidentale e
s’interroga sull’improvvisa frattura, dopo che
il «Canone» di Avicenna è stato a lungo il testo privilegiato per gli studi dei medici nelle università europee. Nel libro si parla anche della medicina del Profeta, punto
di partenza del mondo arabo
degli studi sulla cattiveria condotti dagli psicologi. Nel lavoro più recente uscito nel 2018 su “Psychological Review”, la maggiore rivista della disciplina, i ricercatori Moshagen, Hilbig e Zettler parlano di fattore «D» per indicare il lato oscuro (dark) dell’umanità. E tuttavia questo tratto di personalità “cattivo” non è altro che il minimo comune denominatore di tendenze come narcisismo, sadismo, egoismo e dis-impegno morale. Il fattore “D” spiega il male tramite ridefinizioni, riconducendolo cioè alle patologie mentali dei cattivi. Resta uno scarto incolmabile.
Un conto è il male della stupidità, l’incapacità di capire o di risolvere un problema, altra cosa è la Stupidità del Male, tragica, opaca, parassitaria, priva di fascino intellettuale. Il piano degli studi empirici non aiuta a capire questo secondo livello perché è per definizione limitato all’analisi delle fonti delle cattiverie o, per contrasto, alle procedure per attuare scelte razionali, intese come azioni buone, efficaci. I tentativi della psicologia di collegare i due livelli furono abbandonati dalle scienze cognitive nella seconda metà del secolo scorso.
Il più importante studioso gestaltista che non emigrò negli Stati Uniti e rimase in Germania, Wolfgang Metzger, pubblicò nel 1941 una gigantesca sintesi che tentava questo collegamento tramite un attacco radicale alla teoria del bene utilitarista. Metzger rifiuta, alla fine de I fondamenti della psicologia della gestalt, una teoria del Bene «in cui l’ambiente e gli altri esseri viventi consistono in un mucchio di provviste per i bisogni della comodità, sicurezza, sazietà e benessere e in un mucchio di avanzi … in quel mondo abbiamo l’uomo privo di anima».
La lettura del chiaro e profondo saggio di Bencivenga ci aiuta a capire come mai le odierne scienze sociali e umane, dall’economia alla psicologia, dalla sociologia alle scienze politiche, non permettono neppure di affrontare il tema della Stupidità del Male.