Roma maliarda, tu seduci gli scrittori
La capitale, allarmante e allo stesso tempo incantatrice, è narrata da Elisabetta Rasy attraverso le emozioni di Émile Zola, John Cheever e Bernard Malamud. Ritratto di città bella e polverosa, piena di sorprese
Il 31 ottobre 1894 Émile Zola arriva a Roma. (…) Parla con intellettuali e burocrati della capitale, s’informa della crescita della popolazione, della travagliata avventura urbanistica della città e, si potrebbe dire, ha una cattiva parola per tutto: «Tutto il Borgo miserabile, le vecchie e povere strade con le loro bottegucce, le case losche [...]. La disgrazia è che i romani non hanno avuto un uo
mo come Haussmann», il prefetto
demolitore della vecchia Parigi, peraltro molto contestato in patria. Critica il popolo e la classe dirigente, gli intellettuali e gli impiegati, il clero e gli aristocratici. Pure, così murato nella sua verve polemica, non riesce
a restare indenne al fascino di Roma:
«All’acqua Acetosa e di lì la campagna, un vero Poussin. Valloni, specie di brusche falesie in riva al Tevere che attraggono la luce, mentre le zone ondeggianti sono grigie e dolci». La luce di Roma vince persino il pessimo umore del grande verista francese.
Ma Zola nel suo feroce Diario abbozza anche l’immagine di quella incerta e dimidiata metropoli, sospesa tra passato e futuro, tra cupezza e vitalità, che mi colpì al mio impatto con Roma e che si ritrova in certi scrittori viaggiatori arrivati in città proprio alla metà del Novecento: una città moderna che non solo ospita tracce cospicue della città passata, ma conserva una sua speciale atmosfera, in cui i secoli hanno miscelato in modo inimitabile malinconia e gioia. Penso ai racconti di due importanti autori americani, John Cheever e Bernard Malamud: Roma appare nei loro racconti allarmante e insieme incantatrice.
John Cheever, già autore di alcune apprezzate raccolte di short story, arriva a Roma con la famiglia nell’autunno del 1956 dopo aver consegnato il suo primo romanzo, Cronache della
famiglia Wapshot. Il quarto piano dell’antico e nobiliare Palazzo Doria sarà per dieci mesi la loro casa: niente frigorifero, niente acqua calda, soffitti dorati, imponenti ritratti alle pareti e una luce rosata che entra dalle finestre. Nel racconto The Bella Lingua un solitario americano a Roma va a lezione da un’altra americana che da tempo vive nella capitale: la donna, di modeste condizioni, abita nell’ala sinistra di un vecchio palazzo aristocratico, mentre in quella destra, priva di ascensore, vive la vecchia duchessa proprietaria dell’immobile. Per questo l’attonito straniero vede passare ogni settimana una processione di ottuagenari titolati che si servono dell’ascensore e dell’appartamento dell’insegnante per raggiungere l’ala della duchessa: «Cose del genere possono succedere solo a Roma». Stupore e ancora stupore: lo stupore è il sentimento di fondo del protagonista del racconto. Spesso s’imbatte in un quartiere «di cui non era possi
bile dire se fosse vecchio o nuovo né
altro». Lo spettacolo che ha davanti agli occhi, «le rovine della città repubblicana e imperiale», gli risulta sia «esaltante» sia «disorientante». E il disorientamento che questa città antica-nuova gli trasmette è definitivamente espresso in un altro racconto dedicato all’Italia e a Roma in particolare: Boy in Rome. Anche qui lo sfondo è un vecchio palazzo con un nome d’immaginazione, Palazzo Orvieto, assunto a emblema della misteriosa romanità, della sua incongruità o semplicemente stranezza e unicità: «È un edificio bello ma tetro con una celebre scalinata illuminata soltanto da lampadine da dieci watt e divorata dall’ombra della sera. A volte manca l’acqua e quando a Roma in inverno le giornate sono fredde e piovose il palazzo è infestato da spifferi, con buona pace delle statue tutte nude». Da un altro vecchio palazzo cadente sporge la testa imperiosa una anziana principessa che discute «con una grassona che stava spazzando le scale» urlandole che la scopa serve a lei. Quel palazzo è in un quartiere fatiscente dove si vendono «materassi di seconda mano, vestiti usati, prodotti in polvere contro le pulci e le cimici», eppure l’incantesimo di Roma afferra l’adolescente protagonista del racconto appena il tempo si fa mite. Scrive il ragazzo, alias Cheever: «Era una bella giornata e, sebbene non spetti a me dire che Roma è la città più bella del mondo, spesso l’ho pensato guardando sulle colline i pini dalla chioma schiacciata e gli edifici dai colori carichi mescolati tra loro come granelli di sabbia, e quelle grosse nuvole dalla forma arrotondata che a Nantucket preannuncerebbero l’arrivo di un temporale prima di cena mentre a Roma non preannunciano nient’altro che il cielo si tingerà di porpora e si riempirà di stelle».
In quella stessa prima metà degli anni Cinquanta arriva a Roma anche Bernard Malamud, che aveva da poco pubblicato con successo il romanzo Il migliore. Nel racconto Natura morta – poi inserito nella raccolta Prima gli idioti –, la città di quel soggiorno è evocata tramite una figura di donna, una pittrice un po' maga un po’ strega, la trasteverina Annamaria, con la quale il protagonista, un americano anch’egli pittore, divide uno scalcinato (e freddissimo) studio, e di cui infelicemente si innamora. Annamaria, con la sua natura selvatica e le sue strane superstiziose abitudini, avrebbe potuto essere la nipote di una delle mie vicine di casa in via Sicilia. Pazzo d’amore il giovanotto «incapace di lavorare, girava per le strade, desolato, con l’anima polverosa in una città di fontane e di rubinetti che per devano». L’ironia stralunata di Malamud traduce così le celebri fontane della città, il loro fascino e la loro perturbante malia: «Acqua, acqua dappertutto, che scaturiva, scorreva, sgocciolava, mormorava segreti: amore, amore, amore, ma non per lui».