A scuola con Erodoto e Gandhi
Il dialogo come architrave dell’insegnamento: con i bambini si può parlare di tutto, nel rispetto della loro «ignoranza», ma soprattutto della loro intelligenza
La bandella del libro di Franco Lorenzoni, maestro elementare a Giove (Terni) per più decenni, comincia con una citazione riassuntiva, significativa: «La scuola deve essere un po’ meglio della società che la circonda, se no che ci sta a fare?». Lorenzoni ha tentato di dare alla scuola la sacrosanta importanza che richiede ed esige, e ci è riuscito, a giudicare dalla ricchezza di questo saggio-racconto riassuntivo. Esso ha il solo torto di qualche digressione autobiografica non necessaria, “esterna” alla scuola, e in generale sarebbe stato forse più efficace se più asciutto. Si capisce e giustifica, è ovvio, la spinta a dire il tanto che si è appreso in anni e anni di lavoro nelle classi delle elementari di un piccolo paese che si direbbe non del tutto corrotto (ce ne sono ancora!) dalla rapida involuzione del tessuto sociale e culturale della nazione. Collego questo libro a un altro edito da Sellerio nel 2011, di Carla Melazzini, Insegnare al
principe di Danimarca, perché mi sembrano, nonostante le differenze di ambiente, tranquillo il primo e più che agitato il secondo, che veniva da un’area napoletana fitta di gente e di problemi. Diversa vi era anche l’età degli allievi, adolescenti spesso attratti dalle sirene della malavita e della sua mala educazione, in assenza o quasi di un intervento pubblico bene intenzionato. Sono questi, probabilmente, i migliori “manuali” di pedagogia pratica di un’epoca in cui la pedagogia universitaria ufficiale, e quella proposta da ministeri imbelli e compromessi. Sono anche, tra parentesi, la dimostrazione che non tutta l’eredità del ’68 è finita in opportunismo politico e giornalistico.
Alle spalle di Lorenzoni, trattandosi di elementari, c’è bensì tutta la precedente eredità del Movimento di cooperazione educativa e il magistero del grande maestro francese Freinet, e a quelle della Melazzini c’è, né più né meno, che quello di don Milani. Insisto sul misero contesto della pedagogia ufficiale degli ultimi decenni, travolta soprattutto a sinistra (una delle cause della sua decadenza) dalle ideologie e dalle illusioni dello sviluppo, sempre al passo coi tempi anche se i tempi non promettevano niente di buono. Non è un caso se Melazzini e Lorenzoni abbiano cercato altrove che nell’università i loro maestri.
Cosa caratterizza il modo di lavorare dentro la scuola di Franco Lorenzoni, cosciente “nipote” dei Mario Lodi e dei Bruno Ciari degli anni d’oro della pedagogia e della nostra società, gli anni della ricostruzione e di una buona democrazia? Il ricorso al dialogo come modello primo dell’insegnamento, almeno nelle materie fondamentali, il dialogo come “architrave del processo educativo”. Molti ne sono gli esempi, da appunti e registrazioni di classe, memori, se vogliamo, del dialogo socratico (e più vicini a noi di quello praticato da Danilo Dolci in assemblee popolari siciliane con vecchi e adulti e bambini). Con i bambini si può parlare di tutto, sa chi ci lavora insieme, nel rispetto della loro “ignoranza” ma soprattutto della loro intelligenza, non solo di storia e geografia, di antico e di quotidiano, di reale e di sogno. Si può parlare di natura ma anche di società, di contemporaneità, di problemi che il mondo attraversa e che attraversa il nostro modo di vivere e di pensare, tutt’altro che limpido e sereno. Si può parlare – e all’interno del libro sono questi gli esempi più significativi - di diversità etniche e culturali confrontandosi direttamente con l’esperienza degli immigrati dai sud ed est del mondo, ché ne sono arrivati anche a Giove e sono stati invitati a raccontare la loro storia nella classe di Lorenzoni. Sono esseri umani in carne e ossa, spesso più umani di molti di noi, e non sono minacciosi spettri politico-televisivi. E se ci appaiono diversi da noi, dice un bambino, «anche noi per loro possiamo essere strani».
Ovviamente i modi del discorso cambiano se si tratta di una terza elementare o di una quinta, i modi ma non la sostanza. Si parla spesso, per esempio, di Gandhi, «che non dava ragione a uno ma a due», e uno dei capitoli più belli è quello in cui i bambini si confrontano con un libro di storia locale scritto insieme da insegnanti palestinesi e insegnanti israeliani. Con Gandhi, l’autore più caro a Lorenzoni sembra essere Erodoto, per il rispetto e la comprensione dell’altro e delle sue ragioni. I tempi lunghi della storia e della geografia sono un cardine dell’insegnamento lorenzoniano, così come lo è l’anelito pacifista, e lo è la bellezza e la necessità, anzi l’obbligo, del dialogo: il dialogo come metodo, il dialogo come fine.
Costruito con ambizioni letterarie evidenti, I bambini ci guardano ruba il titolo, bello e giusto, a uno dei primi film di De Sica, in realtà un’opera piuttosto bigotta, ed è diviso in “tempi”, “variazioni” e “intermezzi”. Avrebbe guadagnato da una maggiore stringatezza, per concentrazioni (la classe, i bambini, la pratica dell’insegnamento sempre al centro) piuttosto che per divagazioni, ma si tratta di pochi brani i cui limiti sono forse rimediabili in una seconda edizione del libro, che certamente ci sarà, per metterne in luce tutto il suo valore e dargli durata. Ma due “variazioni” mi sembrano irrinunciabili, quella su Dove si nasconde la matematica e quella su La solitudine delle consonanti ovvero la sfida della disomogeneità. Sono anche letterariamente due capitoli bellissimi. Sì, la scuola deve tornare a essere il luogo in cui una società si apre ai suoi nuovi nati e li aiuta a crescere “studiando” insieme il mondo com’è e com’è stato e come potrebbe essere, insieme il maestro (o il professore) e i suoi allievi. Questo vuol dire, insiste Lorenzoni, esperire insieme, ragionare insieme, scoprire insieme.
Da una classe all’altra, dai modi di dialogare in terza o in quinta cambiano certamente molte cose. Non cambia bensì il metodo, come ben sapevano le maestre e i maestri del Movimento di cooperazione educativa (di recente tornato a “muoversi”, e alle cui imprese va augurata una lunga vita e un pieno successo). Di questo il maestro Lorenzoni e le maestre e i maestri come lui hanno piena coscienza, ed è questo il segreto della loro bravura e misura. Io che qui scrivo, nato maestro elementare ma che mi sono poi lasciato trascinare da altre ambizioni e altre pratiche, so bene che quello del maestro elementare è e può ancora essere il mestiere più bello del mondo. Esso è avvilito oggi da una pedagogia travolta dalle mode e dalla sudditanza all’economia e alla politica, dalle manipolazioni mediatiche e informatiche che vengono chiamate comunicazione, da programmi non all’altezza dei bisogni di fondo e più in generale da una società che è maggioritariamente velleitaria e conformista. Per fortuna resta il mestiere più vicino alla irreprimibile vitalità e curiosità dell’infanzia, ai nuovi nati, e da questo potrebbe ancora trarre l’energia indispensabile per cambiare le cose, per ridar senso alla scuola.