Nel lavoro dedicato alla Chiesa di Roma emerge il disegno di una politica estera dei pontefici, anche attraverso il ricorso a censura e Inquisizione Universalismo del papato
Roma come «gran teatro del mondo» è metafora usuale per definire il complesso intreccio di trattative diplomatiche e linguaggi politici, di solenni liturgie sacre, di spettacolari imprese artistiche, di ambiziose iniziative culturali, di incalzanti notizie dall’Italia, dall’Europa e dai più remoti angoli della Terra, di interessi, clientele e reti di patronage, di alleanze e competizioni che tra Cinque e Seicento ruotava intorno alla corte papale e si diramava nelle corti cardinalizie che le facevano da contrappunto. Era una Roma ormai molto diversa da quella rinascimentale di Giulio II e Leone X, di Raffaello, Bramante e Michelangelo, travolta dal sacco di Roma del 1527 e dalla grande frattura della Riforma protestante. Era una Roma brulicante di nuovi ordini di frati e soprattutto di chierici regolari, alcuni dei quali destinati a grande fortuna, animata da un nuovo spirito di militanza religiosa, di riconquista cattolica, di impegno missionario, di rigore ortodosso e controversistico, di scavo erudito e apologetico nella storia della Chiesa mater et magistra e di riproposizione della sua antica e perenne santità. Ma era anche una Roma in fondo appena sfiorata da quell’incisiva riforma in capite et in
membris da più parti vigorosamente
sollecitata tra Quattro e Cinquecen
to e infine promossa con scarso successo dal concilio di Trento conclusosi alla fine del 1563.
Era stato lo stesso Tridentino, del resto, a subordinare i propri decreti all’approvazione papale e a gettare in tal modo le premesse di un poderoso accentramento burocratico e normativo nella curia romana, che non avrebbe tardato a dotarsi di nuove strutture di governo con la grande riforma della curia voluta da Sisto V, a depotenziare l’autonomia dell’episcopato, a confermare gli innumerevoli privilegi ed esenzioni di cui godevano gli ordini mendicanti, soggetti alla sola autorità pontificia, e soprattutto a ribadire nella sostanza un uso sostanzialmente patrimoniale dei benefici ecclesiastici che ne separava le rendite dalle funzioni. Il che contribuisce a spiegare tanto i fasti e gli splendori della Roma barocca quanto le lentezze, i ritardi e ancor più spesso l’assenza – soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia – della nuova pastorale che i padri conciliari avevano auspicato.
Ma è soprattutto nella Roma crocevia della politica europea e nei suoi meccanismi sociali e simbolici che ci guidano gli studi di Maria Antonietta Visceglia, una storica di grande prestigio internazionale,
che a questi temi ha dedicato numerose ricerche, tra le quali merita ricordare almeno La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna (2002), Roma papale e Spagna (2010), Morte e elezione del papa
(2013) e i volumi da lei curati Diplomazia e politica della Spagna a Roma
(2007) e Papato e politica internazionale nella prima età moderna (2013). Sono dunque studi che scaturiscono da una lunga esperienza di archivi e biblioteche e affrontano questioni disparate, dall’etichetta delle corti cardinalizie in età barocca alla burocrazia curiale tra Cinque e Seicento, dal cerimoniale dell’obbedienza al papa da parte degli ambasciatori italiani ed europei alle congiure per assassinare papa Urbano VIII, dall’incorporazione di Ferrara nello Stato pontificio nel 1597-98 alle emergenze politiche di un Mediterraneo ancora percorso da flotte ottomane e pirati barbareschi visto dal punto di osservazione romano.
A caratterizzare tali studi non è solo il rigore erudito e la perspicuità della ricostruzione fattuale, ma anzitutto la prospettiva originale con cui i problemi sono affrontati. Il rituale romano della festa del Corpus
Domini, per esempio, attraverso la sua evoluzione tra Quattro e Settecento si rivela come un complesso apparato simbolico in continua trasformazione a seconda dei momenti e delle contingenze, volto dapprima a rappresentare le gerarchie della corte pontificia e definire i rapporti con il potere secolare cittadino, riflettendo in tal modo il processo di costruzione della monarchia papale e del suo insediarsi nella cittadella del Vaticano a discapito dell’antica sede lateranense (con le rivalità clericali che ne conseguirono), per accompagnare poi tra Cinque e Seicento il diffondersi della pietà eucaristica e il moltiplicarsi delle confraternite del Santissimo sacramento, e infine testimoniare
nel Settecento i processi di aristocratizzazione della società romana e il progressivo impoverimento di una cerimonia ricondotta alla sua dimensione cittadina e deprivata delle sue valenze politiche. Oppure il saggio su La politica internazionale del papato: linee di lettura su universalismo e italianità, pace e guerra che, come enuncia il titolo stesso, amplia un tema di storia politica agli orizzonti della world history in cui si sviluppa un nuovo universalismo papale, nutrito dello slancio missionario che guarda tanto all’Occidente americano quanto all’Oriente asiatico, fino al Giappone e alle Filippine. Ne offrono testimonianza sia l’iniziativa della potente struttura de propaganda fide sia l’accorto governo gesuitico dell’ansia di martirio che anima gli entusiasmi degli indipetae; e così anche le nuove forme della politica papale del secondo Cinquecento, specie a partire dal pontificato di Gregorio XIII, in cui la rete delle nunziature in tutta Europa e la trama diplomatica che vi si dipana evidenziano una profonda distanza dalla stagione in cui il papato era intervenuto da protagonista anche sul terreno militare nelle guerre d’Italia, ormai esauritesi dopo l’imporsi a tutta la penisola della pax hispanica di Filippo II e dei suoi successori. Ne emerge il nitido disegno della nuova «politica internazionale – scrive Visceglia – di un papato militante e combattivo che non esclude la pianificazione della guerra con l’intervento diretto o con il sostegno economico e diplomatico, che indebolisce gli avversari con il ricorso alla censura e all’Inquisizione, che non indietreggia davanti alle azioni segrete e ai complotti ma che si proietta su orizzonti vastissimi non pensabili e non praticabili senza strategie anche culturali».
Indagini specifiche e puntuali, dunque, da cui scaturiscono tuttavia prospettive generali sulle vicende di cui la Chiesa di Roma fu protagonista nella prima età moderna, sulla sua sorprendente capacità di innovazione pur rivendicando sempre l’ininterrotta continuità di una tradizione che ne costituisce un imprescindibile pilastro, sul segno profondo che essa ha inciso per secoli sulla storia italiana e sull’identità dei suoi abitanti.