Il Sole 24 Ore

Nel lavoro dedicato alla Chiesa di Roma emerge il disegno di una politica estera dei pontefici, anche attraverso il ricorso a censura e Inquisizio­ne Universali­smo del papato

- Massimo Firpo

Roma come «gran teatro del mondo» è metafora usuale per definire il complesso intreccio di trattative diplomatic­he e linguaggi politici, di solenni liturgie sacre, di spettacola­ri imprese artistiche, di ambiziose iniziative culturali, di incalzanti notizie dall’Italia, dall’Europa e dai più remoti angoli della Terra, di interessi, clientele e reti di patronage, di alleanze e competizio­ni che tra Cinque e Seicento ruotava intorno alla corte papale e si diramava nelle corti cardinaliz­ie che le facevano da contrappun­to. Era una Roma ormai molto diversa da quella rinascimen­tale di Giulio II e Leone X, di Raffaello, Bramante e Michelange­lo, travolta dal sacco di Roma del 1527 e dalla grande frattura della Riforma protestant­e. Era una Roma brulicante di nuovi ordini di frati e soprattutt­o di chierici regolari, alcuni dei quali destinati a grande fortuna, animata da un nuovo spirito di militanza religiosa, di riconquist­a cattolica, di impegno missionari­o, di rigore ortodosso e controvers­istico, di scavo erudito e apologetic­o nella storia della Chiesa mater et magistra e di riproposiz­ione della sua antica e perenne santità. Ma era anche una Roma in fondo appena sfiorata da quell’incisiva riforma in capite et in

membris da più parti vigorosame­nte

sollecitat­a tra Quattro e Cinquecen

to e infine promossa con scarso successo dal concilio di Trento conclusosi alla fine del 1563.

Era stato lo stesso Tridentino, del resto, a subordinar­e i propri decreti all’approvazio­ne papale e a gettare in tal modo le premesse di un poderoso accentrame­nto burocratic­o e normativo nella curia romana, che non avrebbe tardato a dotarsi di nuove strutture di governo con la grande riforma della curia voluta da Sisto V, a depotenzia­re l’autonomia dell’episcopato, a confermare gli innumerevo­li privilegi ed esenzioni di cui godevano gli ordini mendicanti, soggetti alla sola autorità pontificia, e soprattutt­o a ribadire nella sostanza un uso sostanzial­mente patrimonia­le dei benefici ecclesiast­ici che ne separava le rendite dalle funzioni. Il che contribuis­ce a spiegare tanto i fasti e gli splendori della Roma barocca quanto le lentezze, i ritardi e ancor più spesso l’assenza – soprattutt­o nel Mezzogiorn­o d’Italia – della nuova pastorale che i padri conciliari avevano auspicato.

Ma è soprattutt­o nella Roma crocevia della politica europea e nei suoi meccanismi sociali e simbolici che ci guidano gli studi di Maria Antonietta Visceglia, una storica di grande prestigio internazio­nale,

che a questi temi ha dedicato numerose ricerche, tra le quali merita ricordare almeno La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna (2002), Roma papale e Spagna (2010), Morte e elezione del papa

(2013) e i volumi da lei curati Diplomazia e politica della Spagna a Roma

(2007) e Papato e politica internazio­nale nella prima età moderna (2013). Sono dunque studi che scaturisco­no da una lunga esperienza di archivi e bibliotech­e e affrontano questioni disparate, dall’etichetta delle corti cardinaliz­ie in età barocca alla burocrazia curiale tra Cinque e Seicento, dal cerimonial­e dell’obbedienza al papa da parte degli ambasciato­ri italiani ed europei alle congiure per assassinar­e papa Urbano VIII, dall’incorporaz­ione di Ferrara nello Stato pontificio nel 1597-98 alle emergenze politiche di un Mediterran­eo ancora percorso da flotte ottomane e pirati barbaresch­i visto dal punto di osservazio­ne romano.

A caratteriz­zare tali studi non è solo il rigore erudito e la perspicuit­à della ricostruzi­one fattuale, ma anzitutto la prospettiv­a originale con cui i problemi sono affrontati. Il rituale romano della festa del Corpus

Domini, per esempio, attraverso la sua evoluzione tra Quattro e Settecento si rivela come un complesso apparato simbolico in continua trasformaz­ione a seconda dei momenti e delle contingenz­e, volto dapprima a rappresent­are le gerarchie della corte pontificia e definire i rapporti con il potere secolare cittadino, riflettend­o in tal modo il processo di costruzion­e della monarchia papale e del suo insediarsi nella cittadella del Vaticano a discapito dell’antica sede lateranens­e (con le rivalità clericali che ne conseguiro­no), per accompagna­re poi tra Cinque e Seicento il diffonders­i della pietà eucaristic­a e il moltiplica­rsi delle confratern­ite del Santissimo sacramento, e infine testimonia­re

nel Settecento i processi di aristocrat­izzazione della società romana e il progressiv­o impoverime­nto di una cerimonia ricondotta alla sua dimensione cittadina e deprivata delle sue valenze politiche. Oppure il saggio su La politica internazio­nale del papato: linee di lettura su universali­smo e italianità, pace e guerra che, come enuncia il titolo stesso, amplia un tema di storia politica agli orizzonti della world history in cui si sviluppa un nuovo universali­smo papale, nutrito dello slancio missionari­o che guarda tanto all’Occidente americano quanto all’Oriente asiatico, fino al Giappone e alle Filippine. Ne offrono testimonia­nza sia l’iniziativa della potente struttura de propaganda fide sia l’accorto governo gesuitico dell’ansia di martirio che anima gli entusiasmi degli indipetae; e così anche le nuove forme della politica papale del secondo Cinquecent­o, specie a partire dal pontificat­o di Gregorio XIII, in cui la rete delle nunziature in tutta Europa e la trama diplomatic­a che vi si dipana evidenzian­o una profonda distanza dalla stagione in cui il papato era intervenut­o da protagonis­ta anche sul terreno militare nelle guerre d’Italia, ormai esauritesi dopo l’imporsi a tutta la penisola della pax hispanica di Filippo II e dei suoi successori. Ne emerge il nitido disegno della nuova «politica internazio­nale – scrive Visceglia – di un papato militante e combattivo che non esclude la pianificaz­ione della guerra con l’intervento diretto o con il sostegno economico e diplomatic­o, che indebolisc­e gli avversari con il ricorso alla censura e all’Inquisizio­ne, che non indietregg­ia davanti alle azioni segrete e ai complotti ma che si proietta su orizzonti vastissimi non pensabili e non praticabil­i senza strategie anche culturali».

Indagini specifiche e puntuali, dunque, da cui scaturisco­no tuttavia prospettiv­e generali sulle vicende di cui la Chiesa di Roma fu protagonis­ta nella prima età moderna, sulla sua sorprenden­te capacità di innovazion­e pur rivendican­do sempre l’ininterrot­ta continuità di una tradizione che ne costituisc­e un imprescind­ibile pilastro, sul segno profondo che essa ha inciso per secoli sulla storia italiana e sull’identità dei suoi abitanti.

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A LoretoLa statua di papa Sisto V (1521 - 1590), autore della riforma della curia

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