Nove nevrastenici salvati dal male di vivere
René Dalize, nato René Dupuy des Islettes nel 1879, è uno dei tanti talenti artistici stroncati dalla prima guerra mondiale. «Giornalista, gentiluomo, grande viaggiatore, ufficiale di Marina, fumatore d’oppio e scrittore», come lo definisce Eric Dussert, perse la vita nel 1917 a Craonne, sulla parte orientale dello Chemin des Dames. Compagno di studi e amico intimo di Apollinaire, fu tra i fondatori della rivista Les Soirées de
Paris e uno degli intellettuali che introdurrà nel mondo parigino degli artisti del tempo l’abitudine di fumare oppio.
La sua figura è pressoché sconosciuta e il solo romanzo sicuramente di suo pugno (è molto probabile che abbia collaborato con Apollinaire a diverse opere passate alla storia senza il suo nome) è Le Club des Neurasthéniques, firmato con lo pseudonimo di Franquevaux, uscito in feuilleton sul quotidiano «Paris-Midi» nel 1912. Nonostante il successo di pubblico e di critica, il testo è stato pubblicato in Francia per la prima volta in volume solo nel 2013 e erriva ora finalmente in Italia per le edizioni Elliot.
I protagonisti di questo gioiello letterario bizzarro, ironico, pieno di humor tra il grottesco e il fantastico sono, dal titolo, nove nevrastenici: uomini e donne malati di ennui, stanchi di tutto, misantropi, snob, ricchi, senza alcun progetto né desiderio se non quello di fuggire «l’inutile agitazione» della capitale francese. Senz’altro l’autore conosceva la definizione di nevrastenia, fornita nel 1869 da Beard e successivamente inserita da Freud nell’ambito delle nevrosi: uno stato fisico e mentale che si manifestava con l’incapacità di eseguire lavori fisici e mentali, e comportava una serie di sintomi tra cui emicranie, ipersensibilità morbosa al tempo atmosferico, alla luce, alla presenza di altre persone, insonnia, disfagia, tremiti muscolari. I nevrastenici di Dalize hanno questi e altri sintomi, si svegliano a giorno inoltrato senza che il riposo doni alcun sollievo alle loro membra e menti affaticate e annoiate, e vivono di notte trovando un unico motivo di (pallida) gioia nel club. A dispetto di vite dissolute e prive di limiti, all’interno del club le regole sono molto strette: nessuno dei soci deve essere sposato, deve interessarsi alla politica, e i soli divertimenti «dolceamari» concessi sono le rare serate musicali e artistiche organizzate con il consenso di tutti. Tranne uno dei membri, Jean Cannabis (!), medico rimasto vedovo e da allora accanito consumatore d’oppio, un’altra caratteristica del club è l’avversione per le droghe.
L’anima del gruppo è il suo segretario Mercoeur, trentenne che ha quasi dilapidato tutta la sua fortuna. Con cura meticolosa difende il club «dai profani e dagli scocciatori». Tuttavia a un certo punto due avvenimenti improvvisi giungono a turbare la vita del club dei «nati stanchi».
Il primo è un’ondata di peste proveniente dalla Cina, che sta dilagando in tutta l’Europa mietendo vittime anche a Parigi. I nevrastenici devono decidere se lasciarsi contagiare, morendo tra atroci sofferenze, o trovare una soluzione alternativa. Una volta optato per una seconda, macabra scelta, che a loro pare coraggiosa ed entusiasmante, il romanzo diventa rocambolesco, un vero e proprio racconto d’avventura che evoca Stevenson, Conrad, Verne. Per una questione d’onore e di eredità che riguarda direttamente il segretario del club, il secondo evento porta i nevrastenici a intraprendere tutti insieme un viaggio nelle isole caraibiche francesi, alla ricerca di una giovane cugina di Mercoeur da riportare in Francia. E lì, tra eruzioni vulcaniche, terremoti, naufragi, tempeste shakespeariane e difficoltà di ogni genere, i nevrastenici ritroveranno la voglia persa da anni di vivere, di amare, di lottare, di dedicarsi anima e corpo a uno scopo nobile che diventa il loro riscatto e la loro catarsi. Si salvano tutti, in senso anche metaforico, ritornando a Parigi profondamente cambiati nel corpo e nello spirito.
Il finale è quasi commovente, pur nella sua leggerezza e comicità, se si pensa che una delle poche opere a noi pervenute dell’autore, oltre a questo affascinante romanzo, è la Ballade du pauvre Macchabé mal enterré scritta nel 1915, in cui foscolianamente immaginava per se stesso una sepoltura «illacrimata» nell’oblio «desolato di una battaglia di dicembre». Amaramente profetico, Dalize sarà sepolto in fretta e furia e nulla resterà delle sue spoglie. Ma il suo geniale club dei nevrastenici «vince di mille secoli il silenzio».