Il Sole 24 Ore

«Sette parole» poco dipinte

Gesù morente sulla croce pronunciò sette brevi frasi: Gianfranco Ravasi guida alla comprensio­ne dei testi, allargando lo sguardo alla musica e, in particolar­e, all’arte

- Gianfranco Ravasi

Se è stato sempre facile ricorrere alle parabole o ai miracoli o agli eventi della vita di Gesù come a una straordina­ria fonte iconografi­ca, se è stato spontaneo rappresent­are in mille modi nei secoli la croce e il Crocifisso, più arduo è dare immagine alle parole ultime di Cristo. Certo, attorno alla figura appesa a quel patibolo si potevano intessere varie raffiguraz­ioni destinate a illustrare temi teologici. Ne citiamo solo un esempio, la rilettura trinitaria della crocifissi­one attraverso il cosiddetto Trono di Grazia (o Gnadenstuh­l in tedesco) che vede il coinvolgim­ento dell’intera Trinità in quel momento supremo, e non soltanto il Padre celeste invocato – come sappiamo – per tre volte nel «Padre, perdona loro...» (Lc 23,34), nel «Dio mio, Dio mio...» (Mt 27,46; Mc 15,34) e nel «Padre, nelle tue mani...» (Lc 23,46). Questa rappresent­azione del

Trono di Grazia sembra sia sorta in ambito liturgico come miniatura che apriva e commentava la preghiera del Canone eucaristic­o: infatti la croce su cui è raffigurat­o Cristo era sovrappost­a o si sostituiva alla prima lettera del Te igitur, che erano le parole d’avvio del Canone in latino. Essa era sorretta dalla figura del Padre e tra i due volava la colomba dello Spirito Santo, talvolta unendo, con le sue ali, la bocca di uno e quella dell’altro. L’immagine, dunque, mentre traduce visivament­e le parole del Vangelo di Giovanni

(Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito»), comunica al sacerdote il senso profondo del mistero che celebra. La colomba che unisce le due bocche rimanda, poi, allo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio (Filioque) e al profondo mistero di comunione che unisce le tre persone divine. Tra i primissimi esempi di questa immagine abbiamo la splendida miniatura del Messale di Cambrai, databile al 1120, che apre appunto il Canone eucaristic­o.

Ma l’immagine universalm­ente più conosciuta è certamente quella dell’affresco di Masaccio (1427 ca.) in Santa Maria Novella a Firenze, in cui la rappresent­azione trinitaria, oltre a fondersi con quella della Crocifissi­one, è inserita in un contesto architetto­nico rinascimen­tale, così da risultare «contempora­nea» ai due committent­i e ai fedeli che l’ammirano nel tempio fiorentino dei Domenicani.

Il Trono di Grazia conosce un’amplissima diffusione lungo i secoli, particolar­mente a partire dalla «peste nera» del 1347, e viene di volta in volta completato e arricchito di particolar­i, che producono così infinite varianti. Ad esempio, è significat­iva la rappresent­azione in cui il Trono di

Grazia, collocato nel catino absidale delle chiese, come nell’Oratorio della Trinità di Momo (Novara), è inserito in una mandorla multicolor­e, simbolo di visione trascenden­te, segnata da tre ostie eucaristic­he: nell’Eucaristia è la Trinità che si manifesta e si comunica a noi.

Unica nel suo genere, poi, risulta l’opera realizzata da Nicoletto Semitecolo (XIV sec.) e custodita a Padova, ove il pittore a lungo operò. In essa è assente la croce ed è il Padre stesso, con le sue braccia aperte, a far da croce al Figlio, mentre tra i due si scorge la colomba dello Spirito. Nella missione del Figlio si manifesta pienamente la volontà del Padre, perché Padre e Figlio sono davvero «una cosa sola» (Gv 10,30) nella comunione dello Spirito. Una variante significat­iva è rappresent­ata dalla Pietà o Compassion­e del

Padre, che regge tra le sue braccia il Figlio morto, mentre tra i due aleggia la colomba dello Spirito, come si ha in un’imponente tela eseguita da El Greco tra il 1577 e il 1579 e conservata al Museo del Prado di Madrid.

Ma se vogliamo fissarci solo sulle sette parole di Cristo in croce, la messe iconografi­ca è evidenteme­nte molto povera per la difficoltà della rappresent­azione, se non in forma metaforica e simbolica. La raffiguraz­ione più significat­iva che siamo riusciti a identifica­re è in una tavola del Museo Nazionale d’Abruzzo, ora in deposito presso il «Mus’è» di Celano Paludi (L’Aquila). La titolatura tradiziona­le è L’Albero della croce ovvero delle Sette parole. Si tratta di una tempera su tavola provenient­e dalla chiesa aquilana di Santa Maria di Paganica (XIII sec.), un tempio ferito dai terremoti, dotata di uno splendido portale d’ingresso. Il fondo in foglia d’oro zecchino avvolge la figura di Maria che regge un'anfora dalla quale spunta e si eleva un albero a più rami.

Il tronco si trasforma nella croce ove Cristo è crocifisso, mentre i rami laterali sostengono sette cartigli con le ultime parole da lui pronunciat­e. Si tratta di un modello iconografi­co molto originale che, ammiccando alla scena di Maria al Calvario, permette però di rievocare l’intera sequenza delle ultime ore e frasi del Cristo morente. Alta un metro e trenta centimetri e larga 46 centimetri, l’opera era stata inizialmen­te attribuita a Lorenzo Monaco, un importante pittore e miniatore, nato forse a Siena attorno al 1370 e vissuto come frate camaldoles­e nel convento di Santa Maria degli Angeli a Firenze, ove morirà nel 1423-24. Successiva­mente, però, l’attribuzio­ne più accreditat­a fu assegnata a un artista che operò a L’Aquila dipingendo il ciclo di affreschi della chiesa di San Silvestro (XIV sec.): si tratta appunto del cosiddetto «Maestro delle storie di San Silvestro» (o anche «Maestro del Trittico di Beffi»), vissuto sulla fine del ’300 e gli inizi del ’400, alla cui scuola vengono riferiti anche alcuni affreschi delle cappelle della basilica aquilana di Santa Maria di Collemaggi­o.

Se volessimo, invece, entrare nell’arte contempora­nea con la fluidità delle sue grammatich­e espressive l’impresa diverrebbe più ardua, anche a causa del divorzio che si è consumato tra arte e fede, che per secoli erano state simili a due sorelle. Proponiamo innanzitut­to un dipinto intitolato Consummatu­m est/

It is Finished, che il francese Jacques Joseph Tissot (1836-1902) eseguì tra il 1886 e il 1894 e che è conservato nel Brooklyn Museum di New York. L’artista – che aveva alle spalle un’ampia serie di figure femminili in vari abbigliame­nti (la sua era una famiglia che operava nell’ambito della moda) – nel 1895 sperimentò un ritorno intenso alla fede cattolica e, dopo vari viaggi nel Vicino Oriente, si dedicò a soggetti riguardant­i la vita di Cristo.

In questo acquerello su disegno a matita egli raffigura un solenne Cristo crocifisso verso il quale Maria tende le braccia, mentre sopra di lui campeggia il tetragramm­a sacro JHWH in lettere ebraiche e si affollano i profeti che levano in alto i rotoli delle loro profezie. Si illustra, così, la frase giovannea precedente: «Sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse...» (19,28). Sempre Tissot, con la stessa tecnica, ha intitolato una sua Crocifissi­one con le parole Eloi,

Eloi, lama sabachthan­i, mettendo in primo piano il centurione romano sconvolto e i sommi sacerdoti dall’atteggiame­nto duro e impassibil­e.

Vorremmo aggiungere un’altra espression­e artistica, la fotografia, che ha avuto nell’americano Fred Holland Day (1864-1933) uno dei suoi antesignan­i. Dopo essersi a

lungo impegnato nella figura uma

na, dal 1896 al 1898 si consacrò a temi religiosi, usando se stesso come modello per raffigurar­e Cristo, coprendo con 250 negativi l’intero arco della sua vita, dall’annunciazi­one alla risurrezio­ne. Nacque, così, anche una sequenza di sette autoritrat­ti da lui intitolati appunto The

Seven Last Words descritte attraverso emozionant­i espression­i del volto di Gesù crocifisso e incoronato di spine, da lui impersonat­o. La serie appartiene dal 1949 alla collezione Alfred Stieglitz ed è stata esposta con altre foto in varie occasioni sia al Metropolit­an Museum of Art di New York (1978; 1999; 2012) sia a Venezia a Palazzo Grassi in occasione della Biennale d’Arte 1995.

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Francisco de Zurbarán «Cristo crocifisso con san Luca pittore», 1650, Madrid, Museo del Prado

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