Sette ballerini perni rotanti di una serata classica
Si dibatte da anni sulla presunta vetustà del balletto classico, che alcuni studiosi e una certa neocritica definiscono senza mezzi termini “muse
ale”, irritando una folta schiera di addetti ai lavori e critici più moderati che lo difendono a spada tratta. La questione è spinosa, anche perché spesso si confonde il linguaggio con l’opera e non si considera l’evoluzione formale e drammaturgica che la tradizione coreutica occidentale ha compiuto. Eppure basterebbero cinque minuti del nuovo spettacolo di William Forsythe, A Quiet Evening of
Dance, che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Grande di Brescia, per calmare gli animi. Forsythe, considerato uno dei più geniali innovatori del “canone” ballettistico, ha
sempre rivendicato il primato e l’importanza dell’idioma classico, tanto più se lo si intenda “tradire” per traghettarlo nel futuro.
E infatti A Quiet Evening, che riunisce senza soluzione di continuità tre brevi coreografie create per l’occasione (Prologue, Epilogue, Seventeen/Twenty One) e due pezzi dal suo recente repertorio (Dialogue Duo 2015, ideato per l’addio alle scene di Sylvie Guillem, e Catalogue Second Edition 2016) è uno spettacolo che “traduce” le forme classiche in un linguaggio gestuale straordinariamente contemporaneo. Si potrebbe dire, per usare un concetto warburghiano, che la forma, anzi la
pathosformel del classico, affiori continuamente con contorni e significati diversi.
Il dinamismo e la fluidità gestuale, sfrondata di qualunque rigidità e ieraticità, le linee e i colori pastello dei costumi, sono accostabili per essenzialità e astrazione all’opera di Merce Cunningham. Ma Forsythe spinge più avanti la sua “destrutturazione” del linguaggio, che con sorprendente naturalezza scivola nell’hip hop e in un groviglio mutevole di forme quasi espressioniste, creando un atlante del gesto dal quale emergono posture ed equilibri inconsueti, dinamismi e relazioni tra i corpi che sembrano restituire l’astrazione pittorica o il contrappunto musicale.
Prodotto dal Sadler’s Well di Londra, dove ha debuttato lo scorso ottobre conquistando subito il prestigioso Van Cleef & Arpels Prize, lo spettacolo è interpretato da sette straordinari danzatori, i quali interagiscono tra di loro in coppia o in gruppo, in un susseguirsi vertiginoso di passi, giri, salti, incroci che restituiscono la ricchezza di un linguaggio ibrido e innovativo, derivato proprio dalle forme classiche. Forsythe ripone un’attenzione analitica al movimento e alle sue dinamiche, isolando segmenti corporei come fossero leve e perni rotanti; spezza, articola e disarticola il gesto, creando figure e sequenze sorprendentemente lineari ancorché reticolari nella loro complessità, soprattutto in Seventeen/Twenty One, in sintonia con la musica di Jean-Philippe Rameau, mentre il silenzio, il ritmo dei respiri e lo stilizzato astrattismo dei Nature Pieces for Piano
di Morton Feldman si sposano perfettamente con la prima parte più minimal e concettuale.
A Quiet Evening of Dance, nelle intenzioni del coreografo, vuole essere uno “spettacolo da camera”, da condividere in maniera intima e distesa col pubblico, anche se il finale sfocia in un’apoteosi barocca, che ha il sapore di una festa, il migliore omaggio che Forsythe poteva tributare alla danza, classica o contemporanea che sia, purché viva e in buona salute.