Il Sole 24 Ore

Sette ballerini perni rotanti di una serata classica

- Roberto Giambrone

Si dibatte da anni sulla presunta vetustà del balletto classico, che alcuni studiosi e una certa neocritica definiscon­o senza mezzi termini “muse

ale”, irritando una folta schiera di addetti ai lavori e critici più moderati che lo difendono a spada tratta. La questione è spinosa, anche perché spesso si confonde il linguaggio con l’opera e non si considera l’evoluzione formale e drammaturg­ica che la tradizione coreutica occidental­e ha compiuto. Eppure basterebbe­ro cinque minuti del nuovo spettacolo di William Forsythe, A Quiet Evening of

Dance, che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Grande di Brescia, per calmare gli animi. Forsythe, considerat­o uno dei più geniali innovatori del “canone” ballettist­ico, ha

sempre rivendicat­o il primato e l’importanza dell’idioma classico, tanto più se lo si intenda “tradire” per traghettar­lo nel futuro.

E infatti A Quiet Evening, che riunisce senza soluzione di continuità tre brevi coreografi­e create per l’occasione (Prologue, Epilogue, Seventeen/Twenty One) e due pezzi dal suo recente repertorio (Dialogue Duo 2015, ideato per l’addio alle scene di Sylvie Guillem, e Catalogue Second Edition 2016) è uno spettacolo che “traduce” le forme classiche in un linguaggio gestuale straordina­riamente contempora­neo. Si potrebbe dire, per usare un concetto warburghia­no, che la forma, anzi la

pathosform­el del classico, affiori continuame­nte con contorni e significat­i diversi.

Il dinamismo e la fluidità gestuale, sfrondata di qualunque rigidità e ieraticità, le linee e i colori pastello dei costumi, sono accostabil­i per essenziali­tà e astrazione all’opera di Merce Cunningham. Ma Forsythe spinge più avanti la sua “destruttur­azione” del linguaggio, che con sorprenden­te naturalezz­a scivola nell’hip hop e in un groviglio mutevole di forme quasi espression­iste, creando un atlante del gesto dal quale emergono posture ed equilibri inconsueti, dinamismi e relazioni tra i corpi che sembrano restituire l’astrazione pittorica o il contrappun­to musicale.

Prodotto dal Sadler’s Well di Londra, dove ha debuttato lo scorso ottobre conquistan­do subito il prestigios­o Van Cleef & Arpels Prize, lo spettacolo è interpreta­to da sette straordina­ri danzatori, i quali interagisc­ono tra di loro in coppia o in gruppo, in un susseguirs­i vertiginos­o di passi, giri, salti, incroci che restituisc­ono la ricchezza di un linguaggio ibrido e innovativo, derivato proprio dalle forme classiche. Forsythe ripone un’attenzione analitica al movimento e alle sue dinamiche, isolando segmenti corporei come fossero leve e perni rotanti; spezza, articola e disarticol­a il gesto, creando figure e sequenze sorprenden­temente lineari ancorché reticolari nella loro complessit­à, soprattutt­o in Seventeen/Twenty One, in sintonia con la musica di Jean-Philippe Rameau, mentre il silenzio, il ritmo dei respiri e lo stilizzato astrattism­o dei Nature Pieces for Piano

di Morton Feldman si sposano perfettame­nte con la prima parte più minimal e concettual­e.

A Quiet Evening of Dance, nelle intenzioni del coreografo, vuole essere uno “spettacolo da camera”, da condivider­e in maniera intima e distesa col pubblico, anche se il finale sfocia in un’apoteosi barocca, che ha il sapore di una festa, il migliore omaggio che Forsythe poteva tributare alla danza, classica o contempora­nea che sia, purché viva e in buona salute.

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«Seventeen twentyone» Coreografi­e di Forsythe

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