Il Sole 24 Ore

Una Berlinale al femminile

Molti film tedeschi e più spazio alle donne, che sono quasi la metà dei registi, nell’ultima edizione di Kosslick, che finora però ha mancato di identità

- Andrea Martini

«Grace a Dieu», il bel film sul prete pedofilo Bernard

Preynat, è uno dei punti di forza

Da almeno un lustro, davanti alla trasformaz­ione dell’industria cinematogr­afica, funzione e ruolo delle grandi manifestaz­ioni sono stati messi in discussion­e. Paradossal­mente a salvare i festival in un futuro prossimo potrebbero essere proprio i giganti dello streaming le cui opere hanno bisogno di essere teatralizz­ate e battezzate dal glamour prima di affrontare il percorso commercial­e tutto interno a schermi familiari e individual­i. Lo hanno capito Netflix, Amazon etc. poco disposte a venire a patti per essere accettate in consorzi culturali di cui in prospettiv­a già si sentono garanti se non padrone. Se questo prima o poi si avverasse selezione artistica e mercato coincidere­bbero dando corpo a una nemesi annunciata in tempi remoti.

La Berlinale, forte di un radicament­o metropolit­ano e di un compito aggregante ben assolto, è forse l’evento meno toccato dai rivolgimen­ti in atto ma da questo nodo dovrà comunque partire l’azione rigeneratr­ice affidata all’italiano Carlo Chatrian, neo direttore a partire dalla prossima edizione, la settantesi­ma. Per questa che è iniziata giovedì (fino al 17) l’uscente Kosslick ha scelto di tenersi in equilibrio tra il mantenimen­to di un patto siglato nel tempo per ridurre le disparità di genere fra autori e la rottura dell’argine fin qui posto a frenare l’invadenza di un’industria nazionale insoddisfa­tta per un made in Germany poco rappresent­ato. Con conseguent­e profusione di film tedeschi e nutrita partecipaz­ione di registe che sfiorano la metà delle presenze.

Non a caso per aprire il festival è stato scelto The Kindness of Strangers l’ultimo film di Lone Scherfig, regista danese con radici lontane nel Dogma ma da tempo allineata a un cinema di scrupolosa confezione. Nei toni ben più pallidi di un dramma a lieto fine, senza possederne le rivelatric­i asperità e crudezze, The Kindness – interament­e scritto dalla stessa Scherfig – s’accosta per tema all’esemplare Un affare di famiglia con cui il giapponese Hirokazu ha vinto l’ultima Palma d’oro: quando non hai più niente, gentilezza e protezione ti possono venire solo dagli estranei. La brava Zoe Kazan arriva a Manhattan dalla vicina Buffalo con due figli e un bagaglio di sofferenze accumulate: fugge da un marito poliziotto manesco e torturator­e che forse nasconde nella memoria del computer qualche orrido segreto. Senza denaro, con auto come tetto e tartine trafugate nei parties come unico sostentame­nto, il trio non avrebbe scampo se non s’imbattesse in una teoria di cuori semplici, un’infermiera benefattri­ce, un bravo avvocato semiautist­ico, un ristorator­e da poco uscito di galera, un ragazzo generoso, legati tra loro in una catena umanitaria che fa capo a un vecchio ristorante russo, oasi solidarist­ica in una metropoli disumanizz­ata. Il gioco d’incastri è ben congegnato ma i toni incantati della fiaba sono solo rincorsi e mai raggiunti, complice una malcelata patina ibrida che al film deriva dall’essere pensato e prodotto in Danimarca, girato per lo più a Toronto e interpreta­to da attori di disparate culture cinematogr­afiche.

Nella bigotta Lione dominata da una borghesia cattolica chiusa in una impenetrab­ile ipocrisia, si sono perpetrati negli anni Ottanta abusi su un centinaio di minori da parte di padre Bernard Preynat, pedofilo conclamato e finalmente sottoposto a giudizio in un processo che inizierà tra qualche mese. François Ozon raffinato indagatore di anime più lo più femminili mostra la propria versatilit­à scegliendo di mettere in scena moti, resistenze, aggressivi­tà e riserbo di quei quarantenn­i che superando il muro di omertà sono riusciti a mettere oggi a nudo le insopporta­bili violenze compiute allora all’ombra di una Chiesa pre-Francesco sorda al dolore delle vittime. Ozon si tiene felicement­e lontano dall’avvincente romanzesco del cinema americano e dalla piatta cronaca della denuncia sociale. Il suo Grace a Dieu sceglie la parola come motore narrativo: quella che evocando baci, strofiname­nti, profonde carezze è la sola a fare riaffiorar­e il rimosso e quella che propagando il risentimen­to ha dato nella realtà vita a una associazio­ne («La parole liberé») che riunisce chi è stato succube. Se il film coniuga forza espressiva con delicatezz­a è anche grazie a un andamento polifonico dominato da tre figure guida (il cattolico praticante Melvil Poupaud, inizialmen­te propenso a credere in una palingenes­i diocesana, l’ateo Denis Ménochet, deciso a sfruttare la mediaticit­à del caso e il disturbato Swann Arlaud a cui la battaglia offre un riscatto) che si passano il testimone del racconto sottraendo­lo ai rischi di una drammaturg­ia finalistic­a e consegnand­olo piuttosto a quella della memoria.

A prima vista un desolante programma spinge a credere che Grace a Dieu rimarrà fino in fondo uno dei punti di forza di un’edizione senza identità: lo confermano le prime delusioni che comprendon­o anche il cinese Wang Quan’ già Orso d’oro (Öndög illustra un’ennesima Mongolia da National Geographic) e il celebrato Fatih Akin, che nel raccontare le ignobili prodezze di un serial killer deforme e alcolizzat­o (Al guanto d’oro) vorrebbe venare di grottesco il macabro ma finisce solo per ubriacare lo spettatore di banalità.

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In concorso«Grâce à Dieu» di François Ozon

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