Una Berlinale al femminile
Molti film tedeschi e più spazio alle donne, che sono quasi la metà dei registi, nell’ultima edizione di Kosslick, che finora però ha mancato di identità
«Grace a Dieu», il bel film sul prete pedofilo Bernard
Preynat, è uno dei punti di forza
Da almeno un lustro, davanti alla trasformazione dell’industria cinematografica, funzione e ruolo delle grandi manifestazioni sono stati messi in discussione. Paradossalmente a salvare i festival in un futuro prossimo potrebbero essere proprio i giganti dello streaming le cui opere hanno bisogno di essere teatralizzate e battezzate dal glamour prima di affrontare il percorso commerciale tutto interno a schermi familiari e individuali. Lo hanno capito Netflix, Amazon etc. poco disposte a venire a patti per essere accettate in consorzi culturali di cui in prospettiva già si sentono garanti se non padrone. Se questo prima o poi si avverasse selezione artistica e mercato coinciderebbero dando corpo a una nemesi annunciata in tempi remoti.
La Berlinale, forte di un radicamento metropolitano e di un compito aggregante ben assolto, è forse l’evento meno toccato dai rivolgimenti in atto ma da questo nodo dovrà comunque partire l’azione rigeneratrice affidata all’italiano Carlo Chatrian, neo direttore a partire dalla prossima edizione, la settantesima. Per questa che è iniziata giovedì (fino al 17) l’uscente Kosslick ha scelto di tenersi in equilibrio tra il mantenimento di un patto siglato nel tempo per ridurre le disparità di genere fra autori e la rottura dell’argine fin qui posto a frenare l’invadenza di un’industria nazionale insoddisfatta per un made in Germany poco rappresentato. Con conseguente profusione di film tedeschi e nutrita partecipazione di registe che sfiorano la metà delle presenze.
Non a caso per aprire il festival è stato scelto The Kindness of Strangers l’ultimo film di Lone Scherfig, regista danese con radici lontane nel Dogma ma da tempo allineata a un cinema di scrupolosa confezione. Nei toni ben più pallidi di un dramma a lieto fine, senza possederne le rivelatrici asperità e crudezze, The Kindness – interamente scritto dalla stessa Scherfig – s’accosta per tema all’esemplare Un affare di famiglia con cui il giapponese Hirokazu ha vinto l’ultima Palma d’oro: quando non hai più niente, gentilezza e protezione ti possono venire solo dagli estranei. La brava Zoe Kazan arriva a Manhattan dalla vicina Buffalo con due figli e un bagaglio di sofferenze accumulate: fugge da un marito poliziotto manesco e torturatore che forse nasconde nella memoria del computer qualche orrido segreto. Senza denaro, con auto come tetto e tartine trafugate nei parties come unico sostentamento, il trio non avrebbe scampo se non s’imbattesse in una teoria di cuori semplici, un’infermiera benefattrice, un bravo avvocato semiautistico, un ristoratore da poco uscito di galera, un ragazzo generoso, legati tra loro in una catena umanitaria che fa capo a un vecchio ristorante russo, oasi solidaristica in una metropoli disumanizzata. Il gioco d’incastri è ben congegnato ma i toni incantati della fiaba sono solo rincorsi e mai raggiunti, complice una malcelata patina ibrida che al film deriva dall’essere pensato e prodotto in Danimarca, girato per lo più a Toronto e interpretato da attori di disparate culture cinematografiche.
Nella bigotta Lione dominata da una borghesia cattolica chiusa in una impenetrabile ipocrisia, si sono perpetrati negli anni Ottanta abusi su un centinaio di minori da parte di padre Bernard Preynat, pedofilo conclamato e finalmente sottoposto a giudizio in un processo che inizierà tra qualche mese. François Ozon raffinato indagatore di anime più lo più femminili mostra la propria versatilità scegliendo di mettere in scena moti, resistenze, aggressività e riserbo di quei quarantenni che superando il muro di omertà sono riusciti a mettere oggi a nudo le insopportabili violenze compiute allora all’ombra di una Chiesa pre-Francesco sorda al dolore delle vittime. Ozon si tiene felicemente lontano dall’avvincente romanzesco del cinema americano e dalla piatta cronaca della denuncia sociale. Il suo Grace a Dieu sceglie la parola come motore narrativo: quella che evocando baci, strofinamenti, profonde carezze è la sola a fare riaffiorare il rimosso e quella che propagando il risentimento ha dato nella realtà vita a una associazione («La parole liberé») che riunisce chi è stato succube. Se il film coniuga forza espressiva con delicatezza è anche grazie a un andamento polifonico dominato da tre figure guida (il cattolico praticante Melvil Poupaud, inizialmente propenso a credere in una palingenesi diocesana, l’ateo Denis Ménochet, deciso a sfruttare la mediaticità del caso e il disturbato Swann Arlaud a cui la battaglia offre un riscatto) che si passano il testimone del racconto sottraendolo ai rischi di una drammaturgia finalistica e consegnandolo piuttosto a quella della memoria.
A prima vista un desolante programma spinge a credere che Grace a Dieu rimarrà fino in fondo uno dei punti di forza di un’edizione senza identità: lo confermano le prime delusioni che comprendono anche il cinese Wang Quan’ già Orso d’oro (Öndög illustra un’ennesima Mongolia da National Geographic) e il celebrato Fatih Akin, che nel raccontare le ignobili prodezze di un serial killer deforme e alcolizzato (Al guanto d’oro) vorrebbe venare di grottesco il macabro ma finisce solo per ubriacare lo spettatore di banalità.