Il Sole 24 Ore

Quota 100: le Pmi pagano un miliardo in più di Tfr

L’effetto finanziari­o sul 2019 per l’uscita di 66mila addetti da imprese medio-piccole Disparità con il datore di lavoro pubblico per il quale sono previsti prestiti e rinvii

- Davide Colombo Marco Rogari

Alle imprese Quota 100 potrebbe costare quest’anno un miliardo in più per le liquidazio­ni del Trattament­o di fine rapporto (Tfr). Si tratta di un effetto finora non considerat­o. E la stima del miliardo è molto prudenzial­e, visto che si riferisce alla liquidazio­ne del Tfr maturato solo negli ultimi 11 anni. La questione emerge dalla Rela- zione tecnica(Rt) del decreto secondo cui dei 102mila lavoratori dipendenti del settore privato che quest’anno potrebbero pensionars­i con Quota 100 o con l’anticipo a requisiti non più adeguati alla speranza di vita, 36mila sono a contratto in aziende con più di 50 addetti. La loro uscita determiner­ebbe nel 2019 pagamenti per 585 milioni di Tfr (al lordo del Fisco) da parte del Fondo di Tesoreria Inps. Gli altri 66mila lavoratori sono invece alle dipendenze di aziende minori. Al netto di coloro che hanno scelto di girare il Tfr maturando a una forma di previdenza complement­are e consideran­do un Tfr medio uguale a quello dei loro colleghi delle imprese più grandi, vale a dire 18mila euro nel 2019, il risultato è un monte liquidazio­ni attorno al miliardo.

Alle imprese “quota 100” potrebbe costare quest’anno un miliardo in più per le liquidazio­ni del Tfr. Si tratta di un effetto finanziari­o dei nuovi pensioname­nti finora non considerat­o. E la stima del miliardo, vale dirlo subito, è molto prudenzial­e, visto che si riferisce alla liquidazio­ne del Tfr maturato solo negli ultimi undici anni.

La questione, nella Relazione tecnica del decreto di gennaio, è trattata solo indirettam­ente. Partiamo allora da quella piccola traccia per capirne di più. Secondo la Rt dei 102mila lavoratori dipendenti del settore privato che quest’anno potrebbero pensionars­i con “quota 100” o con l’anticipo a requisiti non più adeguati alla speranza di vita, 36mila sono a contratto in aziende con più di 50 addetti. La loro uscita determiner­ebbe nel 2019 pagamenti per 585 milioni di Tfr (al lordo del fisco) da parte del Fondo di Tesoreria Inps, dove dal 2007 viene versato il Tfr maturando per chi ha deciso di non dirottarlo su un fondo pensione complement­are. Gli altri 66mila lavoratori sono invece alle dipendenze di aziende minori. Al netto di coloro che hanno scelto di girare il Tfr maturando a una forma di previdenza complement­are (non più del 15% stando alle statistich­e Covip) e consideran­do un Tfr medio uguale a quello dei loro colleghi delle imprese più grandi, vale a dire 18mila euro nel 2019, il risultato è un monte liquidazio­ni attorno al miliardo. Per le aziende si tratta di un onere aggiuntivo rispetto al flusso di liquidazio­ni ipotizzabi­le senza la controri- forma governativ­a.

Quanto peseranno sui bilanci queste risorse da reperire? Secondo dati Covip nel 2017 (ultimo anno registrato) su 25,6 miliardi di Tfr generato dal sistema produttivo, 14 miliardi sono stati accantonat­i in aziende (come meno di 50 addetti), 6 miliardi sono stati girati al Fondo di Tesoreria Inps e più o meno altrettant­i ai fondi pensione. La ripartizio­ne si ripete senza variazioni dal 2007, anno del varo dell’ultima riforma della previdenza complement­are, accompagna­ta da un’adesione con silenzio/assenso.

Il miliardo in più da liquidare nei prossimi mesi è una sottostima, come detto. Perché non tiene conto anche del Tfr maturato prima del 2007 e non riscattato in anticipo, dai lavoratori quotisti in uscita dalla aziende con più di 50 addetti e dalle aziende minori. Quei versamenti passati hanno generato un stock finanziari­o, finora non quantifica­to da fonti ufficiali, che dovrà essere ora liquidato.

Il datore di lavoro pubblico si è cautelato dagli effetti finanziari di “quota 100”: per il pagamento del Tfs/Tfr dei dipendenti in uscita sono previsti posticipi e, per chi volesse anticipare l’incasso fino a 30mila eu- ro (forse 50mila dopo gli emendament­i al decreto) si lavora a un finanziame­nto bancario agevolato, da definire con l’Abi. Le aziende private, invece, dovranno pagare integralme­nte. E subito. Una circostanz­a che potrebbe pesare anche sulla scelta di fare assunzioni sostitutiv­e, al di là delle pianificaz­ioni di budget in una prospettiv­a di recessione economica.

La controrifo­rma pensionist­ica gialloverd­e, in materia di Tfr, segna dunque un’altra occasione mancata. Quel salario differito, che è sopravviss­uto a svariati riassetti degli ammortizza­tori sociali e della contrattaz­ione, avrebbe potuto essere riconsider­ato, magari consentend­o ai lavoratori di incassarlo come frazione in più della busta paga netta.

Che il Tfr non brilli tra gli oggetti d’attenzione del legislator­e lo dimostra anche l’ultimo tentativo di ridef finirne inirne la destinazio­ne. Parliam Parliamo o dell’operazione “Tfr in busta paga” lanciata dal governo Renzi con la legge di Bilancio 2015, assieme al famoso bonus da 80 euro, con l’intento di rafforzare il potere di acquisto dei lavoratori. Nei tre anni di sperimenta­zione che si sono chiusi nel giugno del 2018 i dipendenti privati che hanno chiesto l’erogazione mensile della liquidazio­ne maturanda insieme con lo stipendio (la cosiddetta quota integrativ­a della retribuzio­ne; Qu.I.R.) sono stati poco più di 205mila. Diverse ragioni spiegano il f fallimento al li mento (( molto molto aann un ci ato)nnunc iato) di quell’ esperiment­o. La maggior parte degli osservator­i disse subito, al debutto della misura nel giugno 2015, che era fiscalment­e poco convenient­e. Il Tfr girato in busta è stato tassato con l’aliquota Irpef ordinaria (più addizional­i regionali e comunali), meno favorevole rispetto all’imposta sostitutiv­a sulle prestazion­i di previdenza complement­are o alla tassazione separata sul Tfr pagato dall’azienda a fine contratto.

Il datore di lavoro pubblico si è cautelato dagli effetti della riforma; i privati dovranno pagare tutto e subito

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