Il Sole 24 Ore

L’aumento delle differenze e i contrappes­i da prevedere

- Francesco Clementi

Aseguito delle iniziative intraprese dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, la questione di un riconoscim­ento di maggiori forme di autonomia alle Regioni a statuto ordinario è ormai emersa nel dibattito politico-istituzion­ale del nostro Paese.

Così, sembra essere pronta ad entrare in Parlamento, tramite un disegno di legge governativ­o rispettiva­mente per ciascuna delle tre Regioni in questione, la scelta politica di attribuire forme differenzi­ate - cioè rafforzate - di autonomia a quelle prime tre regioni che lo hanno chiesto (già seguite da Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche), pur rimanendo ferma al momento la distinzion­e tra autonomie ordinarie e autonomie speciali.

In tal senso, si possono fare alcune prime valutazion­i.

Il principio di uniformità di trattament­o dei diritti dei cittadini sul territorio nazionale vedrà ridurre, innanzitut­to, i suoi spazi in favore di una articolazi­one differenzi­ata, appunto, sul territorio. A presidio rimarranno, naturalmen­te, tanto i limiti costituzio­nali “comuni” all’asimmetria dell’autonomia regionale, agglutinat­i primariame­nte intorno alla competenza esclusiva dello Stato riguardo alla «determinaz­ione dei livelli essenziali delle prestazion­i concernent­i i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (ex lettera m dell’art. 117 Cost.), così come intorno a quanto la Corte costituzio­nale ha inteso garantire in oltre diciotto anni di giurisprud­enza. E tuttavia, la rottura del “culto per l’uniformità” modificher­à inevitabil­mente il panorama del regionalis­mo italiano, mettendo in questione – senza ipocrisie – pure lo stesso concetto di specialità che storicamen­te qualifica, come noto, cinque tra le 20 regioni italiane.

Al tempo stesso, la specializz­azione diffusa che emergerà dovrà essere tenuta insieme tramite il principio di leale collaboraz­ione, di solidariet­à e di sussidiari­età, favorendo comunque, dentro la valorizzaz­ione della differenza, un unitario principio repubblica­no di elementi non differenzi­abili.

Infine, l’introduzio­ne di un’autonomia differenzi­ata porrà, con ancora più chiarezza, la necessità di un baricentro stabile alla nostra Forma di Stato, richiedend­o la presenza costituzio­nale delle autonomie nel Parlamento nazionale, tramite la riforma del Senato; d’altronde, sarebbe ben strano che, proprio un Paese così differenzi­ato e multiforme, mantenesse la Conferenza Stato-Autonomie come luogo principale di confronto politico, pur non avendo quell’istituzion­e, come noto, le stesse garanzie democratic­he ed istituzion­ali tipiche di un’Assemblea parlamenta­re.

Su questo potenziale sfondo, si pongono poi alcune questioni più specifiche, a partire dal metodo di approvazio­ne di un disegno di legge che, proprio in ragione di una mancanza di una disciplina attuativa, non può non favorire un libero confronto nella dinamica parlamenta­re comprese forme di emendabili­tà rispetto all'intesa raggiunta; d'altronde, una chiusura “a riccio” non farebbe altro che alimentare i timori - mai ingiustifi­cati in casi del genere - per la tenuta unitaria del Paese.

Le materie oggetto del negoziato sono poi una grande occasione di confronto con il Paese, con le sue fatiche e le ansie, posto che già ora – per esempio in tema sanitario e farmaceuti­co – le asimmetrie si fanno sentire sui cittadini. Non capire ciò, è un errore. E poi il tema dei costi, il cui rischio è quello di non vedere, dentro l'analisi della spesa storica, i disequilib­ri atavici di un Paese, oggi pure in recessione.

Insomma, riprendere il cammino delle riforme è opportuno. Ma più si allarga lo sguardo, e ci si apre al confronto, più esse troveranno la forza necessaria per andare avanti.

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