Espulsione per chi non si integra
Per la Corte di Strasburgo non è violato il rispetto della vita privata
Condanne ripetute. Uso di stupefacenti. Incapacità di integrarsi nel mondo del lavoro. Un insieme di fattori che hanno spinto le autorità italiane a non rinnovare un permesso di soggiorno per un cittadino del Marocco in Italia da oltre 20 anni e a procedere all’espulsione. Una scelta giudicata conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo dalla Corte di Strasburgo che, con la sentenza deposita ieri (sul ricorso 57433/15), ha dato ragione all’Italia. Per i giudici internazionali, infatti, non si è realizzata alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della vita privata.
Un cittadino del Marocco, arrivato all’età di nove anni per motivi di ricongiungimento familiare, aveva vissuto in Italia per più di 20 anni. Condannato per furto, l’uomo aveva presentato istanza di rinnovo del permesso di soggiorno che era stata respinta. Il prefetto di Milano aveva ordinato anche l’espulsione dal territorio nazionale.
Per la Corte europea, le autorità italiane hanno applicato correttamente la Convenzione, richiamata anche nelle pronunce interne. Chiarito che la Convenzione non garantisce a uno straniero di entrare o di risiedere sul territorio di uno Stato parte al trattato, la Corte ha tuttavia precisato che la lunga permanenza in Italia del ricorrente e il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 8 che assicura il diritto al rispetto della vita privata. È vero, quindi, che si è verificata un’ingerenza da parte delle autorità italiane, ma senza violazione della Convenzione. Questo perché l’ingerenza era prevista dalla legge e perseguiva un fine legittimo ossia la difesa dell’ordine pubblico e la prevenzione di illeciti penali. Tanto più che l’uomo era stato condannato in via definitiva per reati gravi, segno di una tendenza manifesta e crescente alla recidiva. Non solo. La misura era necessaria in una società democratica.
Con la conseguenza che le autorità italiane avevano «legittimi motivi per dubitare della solidità dei legami sociali e culturali con il Paese che lo ospita». Pertanto, la decisione del Consiglio di Stato che ha adottato una sentenza motivata, nella quale ha preso in considerazione lo stesso articolo 8, è in linea con la Convenzione perché è stato raggiunto un bilanciamento tra diritto alla vita privata del ricorrente ed esigenze di ordine pubblico.