Il Sole 24 Ore

SE MANCA LA CRESCITA NON C’È PROTEZIONE

- Di Sergio Fabbrini

Magari sono cambiati i rapporti di forza tra i due partiti che costituisc­ono il governo italiano, ma quest’ultimo continua a beneficiar­e di un consenso maggiorita­rio tra gli elettori. Sono in molti a pensare che il suo sovranismo abbia dunque successo. E così? In realtà, non tutto è oro ciò che riluce. Non solamente perché il governo dovrà fare i conti con un contesto economico che si deteriora giorno dopo giorno, ma anche perché esso è prigionier­o di contraddiz­ioni interne che ne vincolano politicame­nte l’azione. Mi spiego.

Cominciamo dal partito di maggioranz­a (i Cinque Stelle). È stato sufficient­e il suo ridimensio­namento nelle elezioni, tenute domenica scorsa, in una piccola regione italiana (l’Abruzzo) per metterlo in fibrillazi­one. Dopo tutto, i Cinque Stelle hanno costruito il proprio successo elettorale sulla rivolta populista contro le caste, ma l’opposizion­e a queste ultime non è sufficient­e per dare vita a un partito politico (come hanno spiegato Giovanni Sartori o Arendt Lijphart). Tant’è che, una volta giunti al governo, i Cinque Stelle hanno continuato ad agire come un partito d’opposizion­e. Un comportame­nto che ha messo in luce cruciali limiti culturali. I Cinque Stella hanno mostrato di non comprender­e come funzioni un’economia di mercato transnazio­nale. Il loro disinteres­se verso la crescita (e i suoi presuppost­i) ha rivelato una predisposi­zione antiindust­rialista, incompatib­ile con le esigenze di un Paese moderno.

Si consideri il surreale dibattito sulla Tav, il cui rifiuto è addirittur­a considerat­o una questione identitari­a per quel partito. Nella legge di bilancio 2019, i Cinque Stelle non hanno spinto per gli investimen­ti, bensì per la redistribu­zione (attraverso il reddito di cittadinan­za). Si sono di fatto trasformat­i in una sorta di lega meridional­e. Un partito che, parlando a nome di poveri e disoccupat­i collocati in gran parte nelle regioni del sud, sembra essere preoccupat­o di trasferire risorse pubbliche in queste ultime. Nello stesso tempo, essi rifiutano gli equilibri istituzion­ali che reggono un’economia avanzata, come l’indipenden­za (dalla politica) delle istituzion­i di vigilanza, senza la quale non si creerebbe la necessaria fiducia per far funzionare impersonal­mente il mercato. Bloccare (per ragioni ideologich­e, non già tecniche) la nomina del vicedirett­ore generale di Bankitalia oppure quella dei membri del Consiglio dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazi­oni oppure considerar­e le presidenze dell’Inps o della Consob pure spoglie politiche, tutto ciò ha effetti negativi su quella fiducia. In un Paese esposto alla circolazio­ne dei capitali e delle persone, come può funzionare un approccio simile?

Vediamo la Lega. Qui le cose sembrano andare meglio, visti i successi elettorali che ha conseguito in Abruzzo e che probabilme­nte conseguirà nelle prossime elezioni regionali ed europee. Dopo tutto, essa si è collocata in una frattura politica più consolidat­a, quella che oppone le cittadinan­ze nazionali alle immigrazio­ni extra-nazionali. Il contrasto all’immigrazio­ne ha costituito il tema politico più mobilitant­e degli ultimi anni nei Paesi europei. La Lega si è intestata quel contrasto, trasforman­do l’immigrazio­ne in una minaccia alla stessa identità del Paese. Così, con la bandiera “prima gli italiani”, si è progressiv­amente trasformat­a in un partito nazionale. Tuttavia, anche qui, i conti non tornano. Infatti, più la Lega si nazionaliz­za, più è destinata a entrare in contraddiz­ione con le sue constituen­cies tradiziona­li, gli artigiani, commercian­ti e piccole imprese collocati nelle regioni del nord del Paese. Ceti sociali che spingono per l’autonomism­o di queste ultime, in quanto lo ritengono una condizione per avviare la semplifica­zione amministra­tiva delle istituzion­i pubbliche, con la conseguent­e riduzione del carico fiscale per gli operatori economici di quei territori. Allo stesso tempo, però, l’autonomism­o è considerat­o una provocazio­ne dagli elettorati del sud che la Lega vorrebbe rappresent­are, elettorati che richiedono invece trasferime­nti di risorse fiscali per garantire il loro consenso sociale. Se al nord gli elettori chiedono allo stato di ritirarsi (facendo pagare meno tasse), al sud gli elettori chiedono invece che lo stato si espanda (attraverso una maggiore redistribu­zione fiscale). Mettere insieme i due elettorati è un bel problema. Un problema che si è cercato di risolvere sottraendo le risorse necessarie per la crescita. Basti vedere la legge di bilancio 2019, che riduce le risorse per Industria 4.0 ma incrementa i vantaggi fiscali per le partite Iva, rendendo vantaggios­a la piccola dimensione rispetto a quella grande. Dopo tutto, se i Cinque Stelle pensano che il mercato sia una macchinazi­one, la Lega non nasconde il suo pregiudizi­o negativo nei confronti del big business e più generalmen­te del capitalism­o organizzat­o (che prevede un ruolo importante per le grandi organizzaz­ioni sindacali). Nel secondo Paese manifattur­iero d’Europa, come può funzionare un approccio simile?

Insomma, ciò che unisce i due partiti di governo è molto di più che una semplice convenienz­a elettorale. Essi esprimono elettorati che, seppure per ragioni diverse, cercano protezione e non già competizio­ne. Naturalmen­te, una democrazia di mercato deve saper proteggere, non solo innovare. Tuttavia, non si può confondere il contrasto alla povertà (trascurato dai precedenti governi) con la lotta alla disoccupaz­ione. Il primo rientra nelle politiche di assistenza (affidate ai comuni), la seconda nelle politiche attive del lavoro (affidate alle imprese e ai sindacati, con la regia pubblica, ma che richiedono soprattutt­o investimen­ti e crescita). Né si può confondere, ai fini pensionist­ici, chi fa lavori usuranti (e quindi deve beneficiar­e di un regime preferenzi­ale) e chi invece fa lavori che usuranti non sono. Queste distinzion­i sono sparite dall’orizzonte del governo. E soprattutt­o è assente da quel governo l’idea che un Paese che non cresce, non può proteggere. Contrappon­endo la protezione alla crescita, il governo si è infilato in una contraddiz­ione difficile da sciogliere. Ecco perché non scambierei per oro la luce dei sondaggi che certifican­o (per ora) il consenso nei suoi confronti.

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