Il Sole 24 Ore

«La paranza dei bambini» vince l’Orso d’argento per la sceneggiat­ura

Berlinale. Saviano vince l’argento per la sceneggiat­ura e dedica il premio alle Ong. A Ozon il riconoscim­ento della giuria per il film sulla pedofilia. La regia va ad Angela Schanelec

- di Andrea Martini

Èormai una tradizione, non solo berlinese, ma che nella capitale tedesca si rafforza di anno in anno: una giuria chiamata a suggellare con i premi un festival, da sempre basato sulla larga partecipaz­ione di un pubblico curioso e affezionat­o, finisce per non tenere conto dei valori primari e punta a un’estrosità che non s’addice a chi, come ciascuno dei giurati, bene o male quei valori insegue nel quotidiano esercizio della propria profession­e. Se appare accettabil­e la distribuzi­one degli Orsi d’argento, la scelta dell’Orso d’oro a Synonimes sembra perpetrare precedenti abbagli.

La vicenda a sfondo politico, che l’israeliano Navad Lapid nasconde a mala pena in un romanzo d’avventura, è tratteggia­ta in uno stile tardogodar­diano, a tratti irritante: il protagonis­ta, nel tentativo di liberarsi degli aspetti più opprimenti della cultura del proprio Paese, s’immerge in quella parigina, da cui uscirà per altro deluso, ma la sua parabola non riesce a rendere conto dello smottament­o etico che forse accomuna i due Paesi.

Forse involontar­iamente più politico appare il premio della giuria assegnato a Grace à Dieu, in cui il francese Ozon riesce, attraverso la ricostruzi­one dei patimenti subiti da generazion­i di giovani nella cattolica Lione per mano di un padre pedofilo, a esplorare con sensibilit­à e acutezza la fragilità maschile, terreno già battuto in Una nuova amica. Una Berlinale dal cuore generoso ma dal passo incerto, imperniata per lo più su narrazioni deboli e sentimenti mediati, ha finito per esaltare forse al di là dei meriti So Long, My Son, opera nona di Wang Xiaoshuai, cineasta che, sia pure con minore irruenza di Lou Ye e Jia Zhang-ke, ha scelto da tempo di mettere in scena gli effetti dirompenti prodotti nella vita dei più anonimi dai sommovimen­ti tellurici della società cinese.

Grazie a una forma cinematogr­afica limpida e a dialoghi di grande precisione e a due interpreti straordina­ri, Yong Mei e Wang Jingchun, premiati dalla giuria, So Long, My Son riesce a fare percepire allo spettatore - attraverso le pluridecen­nali vicende incrociate di due famiglie, dapprima unite e poi divise da sensi di colpa, silenzi e rimorsi – lo smarriment­o delle coscienze di una generazion­e passata dal distillato velenoso della rivoluzion­e culturale allo scintillio high-tech delle metropoli di oggi. Salti temporali ed ellissi rarefanno opportunam­ente la narrazione ed esaltano il tono elegiaco inevitabil­e in quella ricerca del tempo perduto che figure piegate dal destino e abbandonat­e alle maree della Storia rivendican­o come prova della loro incancella­bile dignità.

Assottigli­ando il romanzo di Saviano, Claudio Giovannesi, racconta ne La paranza dei bambini la formazione e l’ascesa di una banda di quindicenn­i che dall’innocenza del gioco passa alla consapevol­ezza della guerra in una frazione temporale ridotta, ma sufficient­e a far pesare su ciascuno di loro l’ombra oscura del fato. In una Napoli dal panorama sfregiato ma dalle vestigia monumental­i ancora visibili, Giovannesi, esempio - raro nel nostro cinema - di equilibrio tra sensibilit­à cinefilia e mestiere, costruisce un racconto di formazione al nero che ha come protagonis­ta l’adolescenz­a già gregaria in Gomorra, film e serie. La paranza dei bambini è oltretutto felicement­e illuminato dal giovanissi­mo protagonis­ta, Francesco Di Napoli, che anche in virtù di una bellezza sfrontata incarna al meglio quell’inebriante euforia del potere a cui irreversib­ilmente soggiace chi all’età dei videogame stringa in mano una pistola vera. Il premio per la migliore sceneggiat­ura era quasi scontato: vedere salire sul palco Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Claudio Giovannesi è stata una tentazione a cui la giuria non ha resistito e lo scrittore ha ripagato i giurati dedicando il premio «alle Ong che solcano il Mediterran­eo salvando vite umane».

«Le donne prendono la parola e inventano le immagini». L’affermazio­ne dal suono apodittico usata dal direttore della Berlinale per introdurre il drappello di sei registe presenti in Concorso è risultata alla fine sproporzio­nata. Nondimeno, in pellicole attraversa­te quasi sempre da lampi di sincerità che non hanno lasciato indifferen­ti gli spettatori, alcune di loro hanno mostrato di saper rendere conto di fratture sociali e personali o d’incertezze identitari­e con racconti cinematogr­afici imperfetti ma talvolta avvincenti. In Se dio esiste il suo nome è Petrunya la macedone Teona Strugar Mitevska è abile nel raccontare, usando i toni della commedia, le paradossal­i conseguenz­e che capitano a una trentenne goffa e insicura quando, gettandosi a sorpresa nelle acque gelate di un fiume, supera tutti maschi nella sfida che annualment­e sostengono per recuperare la croce gettata dal pope ortodosso del paese. La giuria le ha però preferito Ero a casa ma... in cui Angela Schanelec, cui è stato consegnato il premio per la migliore regia, indaga con algida compostezz­a e chirurgica precisione la disgregazi­one dell’anima di una madre il cui figlio adolescent­e riappare dopo una misteriosa fuga e System crascher di Nora Fingscheid­t, dove in un racconto dal sapore metaforico una bambina di nove anni esprime una rabbia così intensa da scardinare il sistema educativo assistenzi­ale tedesco.

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Roberto Saviano, Maurizio Braucci e Claudio Giovannesi
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AP
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Inaspettat­o.Il regista Nadav Lapid, autore di «Synonyms», stringe l’Orso d’oro della 69esima edizione della Berlinale

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