«La paranza dei bambini» vince l’Orso d’argento per la sceneggiatura
Berlinale. Saviano vince l’argento per la sceneggiatura e dedica il premio alle Ong. A Ozon il riconoscimento della giuria per il film sulla pedofilia. La regia va ad Angela Schanelec
Èormai una tradizione, non solo berlinese, ma che nella capitale tedesca si rafforza di anno in anno: una giuria chiamata a suggellare con i premi un festival, da sempre basato sulla larga partecipazione di un pubblico curioso e affezionato, finisce per non tenere conto dei valori primari e punta a un’estrosità che non s’addice a chi, come ciascuno dei giurati, bene o male quei valori insegue nel quotidiano esercizio della propria professione. Se appare accettabile la distribuzione degli Orsi d’argento, la scelta dell’Orso d’oro a Synonimes sembra perpetrare precedenti abbagli.
La vicenda a sfondo politico, che l’israeliano Navad Lapid nasconde a mala pena in un romanzo d’avventura, è tratteggiata in uno stile tardogodardiano, a tratti irritante: il protagonista, nel tentativo di liberarsi degli aspetti più opprimenti della cultura del proprio Paese, s’immerge in quella parigina, da cui uscirà per altro deluso, ma la sua parabola non riesce a rendere conto dello smottamento etico che forse accomuna i due Paesi.
Forse involontariamente più politico appare il premio della giuria assegnato a Grace à Dieu, in cui il francese Ozon riesce, attraverso la ricostruzione dei patimenti subiti da generazioni di giovani nella cattolica Lione per mano di un padre pedofilo, a esplorare con sensibilità e acutezza la fragilità maschile, terreno già battuto in Una nuova amica. Una Berlinale dal cuore generoso ma dal passo incerto, imperniata per lo più su narrazioni deboli e sentimenti mediati, ha finito per esaltare forse al di là dei meriti So Long, My Son, opera nona di Wang Xiaoshuai, cineasta che, sia pure con minore irruenza di Lou Ye e Jia Zhang-ke, ha scelto da tempo di mettere in scena gli effetti dirompenti prodotti nella vita dei più anonimi dai sommovimenti tellurici della società cinese.
Grazie a una forma cinematografica limpida e a dialoghi di grande precisione e a due interpreti straordinari, Yong Mei e Wang Jingchun, premiati dalla giuria, So Long, My Son riesce a fare percepire allo spettatore - attraverso le pluridecennali vicende incrociate di due famiglie, dapprima unite e poi divise da sensi di colpa, silenzi e rimorsi – lo smarrimento delle coscienze di una generazione passata dal distillato velenoso della rivoluzione culturale allo scintillio high-tech delle metropoli di oggi. Salti temporali ed ellissi rarefanno opportunamente la narrazione ed esaltano il tono elegiaco inevitabile in quella ricerca del tempo perduto che figure piegate dal destino e abbandonate alle maree della Storia rivendicano come prova della loro incancellabile dignità.
Assottigliando il romanzo di Saviano, Claudio Giovannesi, racconta ne La paranza dei bambini la formazione e l’ascesa di una banda di quindicenni che dall’innocenza del gioco passa alla consapevolezza della guerra in una frazione temporale ridotta, ma sufficiente a far pesare su ciascuno di loro l’ombra oscura del fato. In una Napoli dal panorama sfregiato ma dalle vestigia monumentali ancora visibili, Giovannesi, esempio - raro nel nostro cinema - di equilibrio tra sensibilità cinefilia e mestiere, costruisce un racconto di formazione al nero che ha come protagonista l’adolescenza già gregaria in Gomorra, film e serie. La paranza dei bambini è oltretutto felicemente illuminato dal giovanissimo protagonista, Francesco Di Napoli, che anche in virtù di una bellezza sfrontata incarna al meglio quell’inebriante euforia del potere a cui irreversibilmente soggiace chi all’età dei videogame stringa in mano una pistola vera. Il premio per la migliore sceneggiatura era quasi scontato: vedere salire sul palco Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Claudio Giovannesi è stata una tentazione a cui la giuria non ha resistito e lo scrittore ha ripagato i giurati dedicando il premio «alle Ong che solcano il Mediterraneo salvando vite umane».
«Le donne prendono la parola e inventano le immagini». L’affermazione dal suono apodittico usata dal direttore della Berlinale per introdurre il drappello di sei registe presenti in Concorso è risultata alla fine sproporzionata. Nondimeno, in pellicole attraversate quasi sempre da lampi di sincerità che non hanno lasciato indifferenti gli spettatori, alcune di loro hanno mostrato di saper rendere conto di fratture sociali e personali o d’incertezze identitarie con racconti cinematografici imperfetti ma talvolta avvincenti. In Se dio esiste il suo nome è Petrunya la macedone Teona Strugar Mitevska è abile nel raccontare, usando i toni della commedia, le paradossali conseguenze che capitano a una trentenne goffa e insicura quando, gettandosi a sorpresa nelle acque gelate di un fiume, supera tutti maschi nella sfida che annualmente sostengono per recuperare la croce gettata dal pope ortodosso del paese. La giuria le ha però preferito Ero a casa ma... in cui Angela Schanelec, cui è stato consegnato il premio per la migliore regia, indaga con algida compostezza e chirurgica precisione la disgregazione dell’anima di una madre il cui figlio adolescente riappare dopo una misteriosa fuga e System crascher di Nora Fingscheidt, dove in un racconto dal sapore metaforico una bambina di nove anni esprime una rabbia così intensa da scardinare il sistema educativo assistenziale tedesco.