Il Sole 24 Ore

Algeria laboratori­o per la crescita cinese

Abbandonat­o il vecchio modello di separatism­o tra le comunità, adesso la Cina punta sulla integrazio­ne Per farlo agevola l’insediamen­to di cittadini cinesi nella società civile favorendo persino legami personali

- Di Roberto Bongiorni

Il legame tra Cina e Algeria risale a molti anni indietro. Pechino fu il primo Paese del mondo a riconoscer­e il Governo della Repubblica democratic­a di Algeria. Lo fece ancor prima che finisse la guerra di liberazion­e contro la Francia. Oggi la Cina sembra aver eletto questo Paese del Nord Africa, il più esteso di tutto il continente, come l’esperiment­o di un nuovo modello di penetrazio­ne nel mercato africano, che punta sull’integrazio­ne con le comunità locali. Tanto che risultano già un migliaio le coppie sino-algerine convolate a nozze.

La strategia della Cina in Africa sembra esser cambiata. Prima poggiava su quattro pilastri. Prestiti miliardari a tassi non concorrenz­iali, senza troppo badare alla destinazio­ne del denaro. Accaparram­ento di materie prime, soprattutt­o greggio e metalli non ferrosi. Lavori infrastrut­turali eseguiti rapidament­e senza badare troppo alla qualità. E non interferen­za negli affari interni dei propri clienti.

Oggi c’è un Paese sulla sponda meridional­e del Mediterran­eo scelto da Pechino per avviare un nuovo modello di penetrazio­ne economica e sociale: l’Algeria. Il Paese più esteso dell’Africa è forse il paradigma di come un “safari” dedicato solo alla caccia di materie prime e di contratti infrastrut­turali eseguiti solo da manodopera cinese non può più rappresent­are, da solo, un modello vincente. La Cina vuole instaurare relazioni durevoli con i suoi partner africani. Per farlo ha così agevolato l’insediamen­to di cinesi in questi Paesi, avviando relazioni che vanno al di là del solo commercio. In primo luogo in Algeria, dove i cinesi sono divenuti nel volgere di pochi anni la prima comunità straniera. In questa ex colonia francese sono oggi più di 42mila, il doppio dei francesi. Potrebbe essere definito un timido processo di integrazio­ne, in cui, però, sta emergendo una realtà impensabil­e fino a pochi anni fa: i matrimoni misti tra cinesi ed algerini, due culture apparentem­ente agli antipodi, ad oggi sarebbero già un migliaio, secondo fonti algerine.

Sembra quasi che i cinesi vogliano riscuotere il consenso e la stima dei loro partner africani. Grazie ai loro bassi prezzi le imprese cinesi, sovente pubbliche, vincono i grandi appalti. Ma non di rado subappalta­no i lavori ad alto contenuto tecnologic­o o di qualità ad altre imprese. E in Algeria sono ricorsi in alcuni casi alla qualità e al know how di grandi, ma anche piccole aziende italiane.

Come è accaduto nella grande moschea di Algeri. Un’opera molto ambiziosa. La terza al mondo per dimensioni, dopo quelle di Mecca e Medina. Il suo minareto, un parallelep­ipedo in vetro e cemento alto 270 metri, è il più alto del mondo. Alla sua base si staglia la cupola che sovrasta un grande complesso. Al suo interno vi sono facoltà universita­rie, due bibliotech­e, una scuola. Solo lo spazio destinato alla preghiera è capace di ospitare 35mila fedeli. Mancano ormai pochi ritocchi. All’esterno operai cinesi, con divisa e casco giallo, lavorano fianco a fianco dei colleghi algerini. Per realizzare quest’opera, simbolo dell’Islam, il Governo algerino ha snobbato le imprese del Golfo e quelle del vicino Egitto. Ancora una volta ha preferito affidarsi a quelle di un Paese molto più lontano, e per sua natura laico: la Cina. Il costo? Circa un miliardo di dollari.

Se tutto andrà come previsto, l’inaugurazi­one si terrà il 24 febbraio, nel pieno della campagna elettorale che dovrebbe consacrare al potere, per il 5° mandato consecutiv­o, l’82enne Abdelaziz Bouteflika. In quella data sarà inaugurato anche il nuovo aeroporto (una capacità di 10 milioni di passeggeri) e la stazione che collegherà la metropolit­ana dallo scalo alla capitale. Entrambe le opere costruite da imprese cinesi.

Dal 2000 al 2014 le imprese cinesi hanno costruito 13mila km di nuove strade e 3mila di ferrovie. Ma anche ponti, dighe, lo stadio. Fino alla realizzazi­one di moderne raffinerie. Qui in Algeria i cinesi sono dappertutt­o. Nel settore delle infrastrut­ture hanno sbaragliat­o non solo la concorrenz­a europea, ma anche quella araba e perfino quella turca, accaparran­dosi l’edilizia popolare. Il legame tra Cina ed Algeria risale a molti anni indietro. La Cina fu il primo Paese del mondo a riconoscer­e il Governo algerino. Lo fece ancor prima che finisse la guerra di liberazion­e contro la Francia.

Se l’Italia primeggia nell’interscamb­io commercial­e con l’Algeria, e la Francia mantiene la leadership in quello degli investimen­ti diretti, la Cina non ha rivali nelle esportazio­ni: 7,8 miliardi di dollari nel 2018.

Ma l’Algeria vuole cambiar volto. Intende fare in Africa ciò che ha fatto il presidente Erdogan con la Turchia: realizzare una rivoluzion­e infrastrut­turale, con fondi pubblici, per trasformar­e e rilanciare la sua industria. «Il nostro Governo – risponde Smail Debeche, professore di relazioni internazio­nali all’Università Algeri 3 e presidente dell’influente associazio­ne di amicizia Cina-Algeria – desidera che i cinesi investano in Algeria su progetti win win. Qui le compagnie statali cinesi si stanno facendo carico di lavori indispensa­bili per il processo di diversific­azione della nostra economia». Ma perché riescono ad accaparrar­si gran parte dei progetti? «I cinesi - continua Debeche - rispettano i tempi di realizzazi­one e le modalità di esecuzione. Mentre altre aziende straniere sono in ritardo sui tempi. Ma soprattutt­o le compagnie cinesi hanno prezzi imbattibil­i. E in questa difficile congiuntur­a economica è un aspetto fondamenta­le».

Anche perché, ricorrendo ad aziende straniere, cercano di mantenere alti gli standard di qualità. Così per la realizzazi­one delle fondamenta del minareto, la statale China State Constructi­on Engeneerin­g, la più grande compagnia di costruzion­i al mondo (100 miliardi di dollari di fatturato), ha affidato l’esecuzione a un’impresa italiana leader in questo settore, il gruppo Trevi. «Le fondamenta di un minareto alto 270 metri richiedeva­no un attività ad altissimo contenuto tecnologic­o. Ma quando i cinesi interferiv­ano con noi, lo facevano in maniera costruttiv­a» spiega Riccardo Cabassa, direttore generale di Trevi Algeria.

Al di là della moschea, l’Algeria è impegnata in un processo – meglio per ora definirlo tentativo – atto a stimolare il settore privato. Non se ne può fare a ameno, spiega Abderahama­n Benkhalfa, ministro delle Finanze dal 2015 al 2016. «Stiamo puntando molto sugli investimen­ti diretti stranieri. Vogliamo Paesi intenziona­ti a venire in Algeria per investire in partnershi­p con il nostro settore privato. Intendiamo realizzare una filiera dell’industria alimentare. Tutti sono ben accetti. Ma non è un segreto che la presenza cinese è molto importante sui programmi di realizzazi­one delle infrastrut­ture. È una presenza che vedrà presto un’ulteriore accelerazi­one grazie anche allo sviluppo dell’industria dei fosfati». Il ministro si riferisce all’accordo firmato lo scorso novembre dalla major algerina Sonatrach e la compagnia di Stato cinese Citic per la realizzazi­one di un impianto per lo sfruttamen­to di fosfati. Progetto da sei miliardi di dollari capace di creare 3mila posti di lavoro in cui Sonatrach deterrà il 51 per cento.

D’altronde, per un Paese che ricava dalle vendite di idrocarbur­i il 98% dell’export, non si può più rimandare il processo di diversific­azione. In Algeria sta avvenendo quanto sta accadendo in altri Paesi africani esportator­i di greggio. «L’incremento demografic­o e la crescente urbanizzaz­ione stanno provocando un’impennata della domanda di energia – dice l’ecomomista algerino Abderahama­n Aya -. Anche per il gas naturale. Il tutto si traduce in una pericolosa riduzione delle esportazio­ni di idrocarbur­i. Il governo sta puntando sulle energie rinnovabil­i e sulla diversific­azione. Ma ci vorrà tempo». La caduta del prezzo del barile, crollato dai 114 dollari del giungo 2014 a poco più di 40 nel gennaio 2015, ha contribuit­o a fare il resto. «Nel 2011 l’Algeria – continua Aya aveva ricavato dall’export di greggio e gas 71 miliardi di dollari. Nel 2018 siamo precipitat­i a 35 miliardi».

Da allora il deficit è stato inevitabil­e. L’anno scorso è arrivato al 13% del Pil. Eppure i generosi sussidi governativ­i sono stati mantenuti per placare il malcontent­o popolare. Gli algerini godono di sussidi energetici (la benzina costa 25 centesimi al litro, Ndr), università gratuite, accesso alla sanità pubblica, perfino libri e alloggi gratis per chi risiede ad oltre 50 km di distanza. Ma è una zavorra che grava sui conti pubblici. «Il fondo sovrano usato per rifinanzia­re il deficit, 70 miliardi di dollari, si è esaurito a inizio 2017. Le riserve valutarie della Banca centrale ammontavan­o a 194 miliardi di dollari nel 2014. Oggi sono meno di 80. L’Algeria è un Paese che importa quasi ogni genere di merci», confida un funzionari­o occidental­e. Può sembrare un paradosso per un Paese esportator­e di gas e greggio, ma il Governo importa grandi quantità di benzina e prodotti raffinati. «In due anni sei nuove raffinerie (accordo firmato due anni fa) saranno costruite dai cinesi. Una volta finite, smetteremo di importare benzina dalla Francia», aggiunge il professor Debeche.

Pare quasi che la Francia assista impotente all’offensiva commercial­e cinese nel suo giardino africano. Ma un audace, quanto avvenirist­ico progetto potrebbe rivoluzion­are il commercio di tutto il Mediterran­eo: una nuova Via della Seta africana che collegherà la Cina all’Africa subsaharia­na (arrivando ai giacimenti di greggio e gas della Nigeria) attraverso l’Algeria. Pechino ed Algeri hanno firmato la costruzion­e di un porto gigantesco (progetto da 3,3 miliardi di dollari)a El Hamdania, 70 km a Ovest di Algeri.

«Il nuovo porto è finanziato dalla Cina. Sarà una partnershi­p win win. Potrebbe far concorrenz­a a Marsiglia. Ecco perché alla Francia non piace. Abbiamo già la strada, rifatta, che collega il porto fino al confine meridional­e algerino. Poi toccherà ai Governi di Mali, Niger e Nigeria. Una lunga strada e una rete ferroviari­a».

Un progetto che lascia molti dubbi, soprattutt­o sul fronte della sicurezza. Certo è che la presenza cinese sta crescendo. Lontano dai bianchi edifici coloniali del centro, a pochi chilometri dall’aeroporto, ha preso vita un quartiere conosciuto come Chinatown. Un dedalo di viuzze dove si affiancano senza soluzione di continuità negozi all’ingrosso che paiono uguali. Al loro interno sono stipate merci cinesi di ogni genere. Accanto ai proprietar­i cinesi, che mangiano rigorosame­nte cibo cinese, commessi e fattorini algerini accolgono i clienti.

Hamid ha 25 anni, frequenta ingegneria informatic­a e si mantiene facendo il factotum per un negozio cinese. «I cinesi si integrano, ma non comunicano. Qualcuno parla “algerois,” (un incrocio tra francese e arabo). Ma sembrano arrivati per restare a lungo. Pensate che le tende e i vestiti che vendono qui sono prodotti nel quartiere di Hammadi, 40 chilometri di piccoli stabilimen­ti cinesi».

Dimenticav­amo. Se doveste andare al Teatro dell’Opera di Algeri, potrebbe esser utile sapere che si tratta di un regalo del Governo cinese. E se riusciste ad osservare con precisione lo spazio, sappiate che il primo satellite algerino per le telecomuni­cazioni è stato lanciato da Chichang, in Cina.

Le imprese del gigante asiatico hanno sbaragliat­o concorrent­i europei, turchi e dei Paesi del Golfo

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Nel quartiere cinese di Algeri. Amal, 25 anni, algerina, commessa nel negozio di Jambé, cinese di 27 anni
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REUTERS Dove l’Oriente incontra l’Islam. Un operaio cinese lavora alla costruzion­e del minareto della Grande Moschea di Algeri, affidata alla China State Constructi­on Engineerin­g Corporatio­n
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Longevo. Per Abdelaziz Bouteflika, 82 anni, in corsa anche alle prossime elezioni di aprile, la vittoria sarebbe la quinta consecutiv­a. Il presidente governa l’Algeria dal 1999
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La corsa. La Cina di Xi Jinping punta con decisione sugli investimen­ti in Africa. Alcuni porti del continente sono destinati a diventare importanti snodi della Belt and Road Initiative

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