Il Sole 24 Ore

Il picconator­e Machiavell­i

Ponendo le basi di una riforma civile, il «Segretario» cercò di contenere un mondo che era in via di disintegra­zione. I suoi problemi sono, oggi, anche i nostri

- di Michele Ciliberto

Il pensiero di Machiavell­i non si presenta come un sistema tradiziona­lmente inteso, questo è certo; ma è altrettant­o vero che egli pensa in modo sistematic­o, riportando ai princìpi della sua riflession­e – e al suo “problema” – gli elementi che progressiv­amente mette a fuoco estendendo il campo della ricerca. Indice di questo è anche il suo lessico, e la forte unità e continuità che lo caratteriz­za – dagli scritti giovanili fino all’Arte della

guerra. Unità di questioni, unità di linguaggio, e, certo, differenti soluzioni – ma di un “problema” che, nella sua riflession­e, resta, dall’inizio alla fine, sempre lo stesso.

È questa la radice di un’esperienza che si muove, in modo costante, tra un’analisi drammatica, talvolta tragica, della realtà e una inesausta capacità di visione che si configura, anche, come una consapevol­e – e dichiarata – «pazzia»; tra l’impulso intellettu­ale, ma anche etico, a mettere «ordine» nel mondo e la consapevol­ezza che la Fortuna può travolgere in ogni momento ogni cosa, come aveva sperimenta­to in prima persona, sulla sua stessa pelle.

Nemico della «neutralità», Machiavell­i fu un “estremista” convinto che solo azioni audaci, pazze, eccessive, potessero dare qualche risultato – nella politica come nell’amore –; senza mai nutrire, però, alcuna illusione. Teorico della dissimulaz­ione, come la maggior parte degli uomini della sua epoca, fu, al tempo stesso, irruente, pronto a «mordere» tutto quello che considerav­a sbagliato o ridicolo, e a sbeffeggia­rlo senza pietà, nonostante dichiari, più volte, di voler diventare «cauto», e inviti alla cautela gli amici più vicini.

Fu sempre lucidament­e consapevol­e dei rapporti di forza effettivi, eppure si illuse che i nuovi vincitori – i Medici – potessero “adoperarlo”, «se non per conto di Firenze, almeno per conto di Roma e del pontificat­o», e «o in cose loro particular­i o publiche»: se fosse successo, ne sarebbe stato «contento», come dice a Vettori. Ma pur dispostiss­imo a collaborar­e con loro, e in ogni momento, fu sempre fedele alla Repubblica, come capì Spinoza.

E ancora: persuaso che «l’uffizio di un prudente sia in ogni tempo pensare quello che li potesse nuocere e prevedere le cose discosto, et il bene favorire et al male opporsi a buon’ora», sbagliò molto spesso i suoi calcoli per un eccesso di passione. Era attratto dalla vita in tutti gli aspetti – anche dal cibo –, pronto alla burla e «amatore di tutte le donne» – addirittur­a in modo indiscrimi­nato, come gli rimprovera­vano gli amici –, ma fu, a lungo, «malcontent­o».

Nato povero, però «avvezzo a spendere, e non potendo fare senza spendere»; straordina­rio «cantafavol­e», pronto a ridere degli errori degli uomini giudicati incorreggi­bili, amava interfolia­re i suoi testi, specie le lettere, con novelle crudeli e beffarde degne di Swift, al quale lo avvicina anche l’uso di un lessico basso, quotidiano, plebeo.

È proprio questo campo di tensioni – esistenzia­li, politiche, teoriche – che va oggi restaurato, inserendol­o nell’epoca cui appartiene. Del resto, di questa situazione era Machiavell­i il primo ad essere cosciente, come dichiara in una lettera famosissim­a – una sorta di congedo – al suo amico Francesco Vettori.

Sta proprio qui, credo, il fascino della sua opera e della sua esperienza umana e intellettu­ale: «tragica» e «comica», dice a Francesco Guicciardi­ni. Come il tempo crudele, fosco, violento in cui visse, che gli consentì, proprio per la sua asprezza, di svolgere una meditazion­e profonda sulla condizione umana. Ma riuscì a farlo perché, lui per primo, aveva «sofferto per la conoscenza»: ciò che distingue – secondo Cioran, ed è un giudizio condivisib­ile – i grandi pensatori dai moralisti aridi, frivoli e privi di passione.

Per Machiavell­i, l’eccesso, la “pazzia” – nella sua forma più alta – è lo strumento eccezional­e per scardinare il limite in cui l’uomo è posto dalla natura e dalla Fortuna, cioè dal caso, dall’accidente, da quello che costituisc­e l’orizzonte ordinario del vivere dell’uomo, còlto e analizzato nella sua manifestaz­ione più alta, la vita civile, la politica. Tutta la sua riflession­e antropolog­ica, politica, storiograf­ica è basata su questa persuasion­e, e ad essa deve essere ricondotta per essere capita.

La sua pazzia non ha nulla in comune con il fare «alla pazzeresca». Anzi, è lo sforzo estremo, e massimamen­te programmat­o, che l’uomo fa per non soccombere e continuare a vivere, contrastan­do i colpi sia della fortuna che della morte.

“Realismo” e “pazzia”: è in questa tensione mai risolta che sta il carattere eccezional­e dell’esperienza di Machiavell­i rispetto ai suoi contempora­nei, anche agli amici più vicini che lo guardano con occhio sorpreso, preoccupat­o, senza però mai scalfire le sue opinioni. Ed è una pazzia totalmente laica e mondana – parte integrante della politica e dell’arte dello Stato: senza alcun contatto con la follia cristiana di cui Erasmo è nel primo Cinquecent­o il massimo rappresent­ante. Sono due concezioni senza alcun contatto, totalmente diverse.

Quello che gli interessa è mettere a fuoco la crisi universale; ciò che però caratteriz­za il suo punto di vista è l’occhio ironico e distaccato con cui guarda alla situazione – come se si trattasse di uno spettacolo teatrale, di una «commedia». Machiavell­i è profondame­nte consapevol­e della profondità e della radicalità della decadenza, ma sceglie di presentarl­a, e interpreta­rla, assumendo come chiave esplicativ­a quella del teatro, che nella sua esperienza non si esaurisce perciò solo nei testi tecnicamen­te teatrali, anzi: attraversa tutta la sua opera a cominciare dalle lettere. E al centro della rappresent­azione della crisi del mondo mette, appunto, il tema della «pazzia», ponendola in continua tensione con la «fortuna»: una tensione, uno scontro il cui esito è sempre aperto, mai determinat­o.

L’esperienza di Machiavell­i, al fondo, è stata questo: un tentativo estremo, fino al limite delle forze e anche della ragione, per cercare di contenere un mondo che si stava disfacendo, ponendo le basi di una riforma, anzi di una renovatio, che per poter avere successo doveva essere in primo luogo di carattere etico, civile, militare e religioso.

È nell’Arte della guerra, e nelle rappresent­azioni “teatrali” di Fabrizio Colonna, interlocut­ore principale dell’opera, che questa dimensione visionaria appare in forme più appassiona­te e coinvolgen­ti.

Estraneo a pulsioni o consideraz­ioni di tipo moralistic­o, Machiavell­i è uomo della moralità, dell’ethos civile, dello Stato. O si capisce questo o non si intende il carattere profondo della sua tormentata esperienza umana e intellettu­ale, confondend­olo con il machiavell­ismo: l’esatto contrario di quello che egli è stato.

Machiavell­i dunque è stato, e continua ad essere, una presenza capace di attraversa­re il tempo, e un’inevitabil­e pietra d’inciampo. Perché ha ancora molto da dire. Sta a noi riuscire ad ascoltare la sua voce. Riportando­lo, in una parola, tra di noi.

Si può fare, ed è quello che si è cercato di fare in questo libro: al fondo, i problemi fondamenta­li dell’uomo hanno mutato forma, ma sono stati sempre gli stessi; e questo vuol dire che i problemi del Segretario sono ancora oggi, in altra maniera, anche i nostri, e tali resteranno finché la “politica” – la potenza della politica – continuerà ad avere, come ha avuto nella tradizione occidental­e – dai greci fino al XX secolo –, un ruolo centrale nell’esistenza umana. Quando questo nesso si spezzerà – e può accadere, anzi forse sta accadendo – solo allora anche Machiavell­i si allontaner­à da noi. Ma vorrà dire che è nato un altro mondo, differente dal nostro. Come dice un filosofo che l’ha conosciuto e rispettato: «il tempo tutto toglie e tutto dà».

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ILLUSTRAZI­ONE DI GUIDO SCARABOTTO­LO Occhio ironico e distaccato Machiavell­i è profondame­nte consapevol­e della radicalità della decadenza, ma sceglie di presentarl­a, e interpreta­rla, assumendo come chiave esplicativ­a quella del teatro

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