Il picconatore Machiavelli
Ponendo le basi di una riforma civile, il «Segretario» cercò di contenere un mondo che era in via di disintegrazione. I suoi problemi sono, oggi, anche i nostri
Il pensiero di Machiavelli non si presenta come un sistema tradizionalmente inteso, questo è certo; ma è altrettanto vero che egli pensa in modo sistematico, riportando ai princìpi della sua riflessione – e al suo “problema” – gli elementi che progressivamente mette a fuoco estendendo il campo della ricerca. Indice di questo è anche il suo lessico, e la forte unità e continuità che lo caratterizza – dagli scritti giovanili fino all’Arte della
guerra. Unità di questioni, unità di linguaggio, e, certo, differenti soluzioni – ma di un “problema” che, nella sua riflessione, resta, dall’inizio alla fine, sempre lo stesso.
È questa la radice di un’esperienza che si muove, in modo costante, tra un’analisi drammatica, talvolta tragica, della realtà e una inesausta capacità di visione che si configura, anche, come una consapevole – e dichiarata – «pazzia»; tra l’impulso intellettuale, ma anche etico, a mettere «ordine» nel mondo e la consapevolezza che la Fortuna può travolgere in ogni momento ogni cosa, come aveva sperimentato in prima persona, sulla sua stessa pelle.
Nemico della «neutralità», Machiavelli fu un “estremista” convinto che solo azioni audaci, pazze, eccessive, potessero dare qualche risultato – nella politica come nell’amore –; senza mai nutrire, però, alcuna illusione. Teorico della dissimulazione, come la maggior parte degli uomini della sua epoca, fu, al tempo stesso, irruente, pronto a «mordere» tutto quello che considerava sbagliato o ridicolo, e a sbeffeggiarlo senza pietà, nonostante dichiari, più volte, di voler diventare «cauto», e inviti alla cautela gli amici più vicini.
Fu sempre lucidamente consapevole dei rapporti di forza effettivi, eppure si illuse che i nuovi vincitori – i Medici – potessero “adoperarlo”, «se non per conto di Firenze, almeno per conto di Roma e del pontificato», e «o in cose loro particulari o publiche»: se fosse successo, ne sarebbe stato «contento», come dice a Vettori. Ma pur dispostissimo a collaborare con loro, e in ogni momento, fu sempre fedele alla Repubblica, come capì Spinoza.
E ancora: persuaso che «l’uffizio di un prudente sia in ogni tempo pensare quello che li potesse nuocere e prevedere le cose discosto, et il bene favorire et al male opporsi a buon’ora», sbagliò molto spesso i suoi calcoli per un eccesso di passione. Era attratto dalla vita in tutti gli aspetti – anche dal cibo –, pronto alla burla e «amatore di tutte le donne» – addirittura in modo indiscriminato, come gli rimproveravano gli amici –, ma fu, a lungo, «malcontento».
Nato povero, però «avvezzo a spendere, e non potendo fare senza spendere»; straordinario «cantafavole», pronto a ridere degli errori degli uomini giudicati incorreggibili, amava interfoliare i suoi testi, specie le lettere, con novelle crudeli e beffarde degne di Swift, al quale lo avvicina anche l’uso di un lessico basso, quotidiano, plebeo.
È proprio questo campo di tensioni – esistenziali, politiche, teoriche – che va oggi restaurato, inserendolo nell’epoca cui appartiene. Del resto, di questa situazione era Machiavelli il primo ad essere cosciente, come dichiara in una lettera famosissima – una sorta di congedo – al suo amico Francesco Vettori.
Sta proprio qui, credo, il fascino della sua opera e della sua esperienza umana e intellettuale: «tragica» e «comica», dice a Francesco Guicciardini. Come il tempo crudele, fosco, violento in cui visse, che gli consentì, proprio per la sua asprezza, di svolgere una meditazione profonda sulla condizione umana. Ma riuscì a farlo perché, lui per primo, aveva «sofferto per la conoscenza»: ciò che distingue – secondo Cioran, ed è un giudizio condivisibile – i grandi pensatori dai moralisti aridi, frivoli e privi di passione.
Per Machiavelli, l’eccesso, la “pazzia” – nella sua forma più alta – è lo strumento eccezionale per scardinare il limite in cui l’uomo è posto dalla natura e dalla Fortuna, cioè dal caso, dall’accidente, da quello che costituisce l’orizzonte ordinario del vivere dell’uomo, còlto e analizzato nella sua manifestazione più alta, la vita civile, la politica. Tutta la sua riflessione antropologica, politica, storiografica è basata su questa persuasione, e ad essa deve essere ricondotta per essere capita.
La sua pazzia non ha nulla in comune con il fare «alla pazzeresca». Anzi, è lo sforzo estremo, e massimamente programmato, che l’uomo fa per non soccombere e continuare a vivere, contrastando i colpi sia della fortuna che della morte.
“Realismo” e “pazzia”: è in questa tensione mai risolta che sta il carattere eccezionale dell’esperienza di Machiavelli rispetto ai suoi contemporanei, anche agli amici più vicini che lo guardano con occhio sorpreso, preoccupato, senza però mai scalfire le sue opinioni. Ed è una pazzia totalmente laica e mondana – parte integrante della politica e dell’arte dello Stato: senza alcun contatto con la follia cristiana di cui Erasmo è nel primo Cinquecento il massimo rappresentante. Sono due concezioni senza alcun contatto, totalmente diverse.
Quello che gli interessa è mettere a fuoco la crisi universale; ciò che però caratterizza il suo punto di vista è l’occhio ironico e distaccato con cui guarda alla situazione – come se si trattasse di uno spettacolo teatrale, di una «commedia». Machiavelli è profondamente consapevole della profondità e della radicalità della decadenza, ma sceglie di presentarla, e interpretarla, assumendo come chiave esplicativa quella del teatro, che nella sua esperienza non si esaurisce perciò solo nei testi tecnicamente teatrali, anzi: attraversa tutta la sua opera a cominciare dalle lettere. E al centro della rappresentazione della crisi del mondo mette, appunto, il tema della «pazzia», ponendola in continua tensione con la «fortuna»: una tensione, uno scontro il cui esito è sempre aperto, mai determinato.
L’esperienza di Machiavelli, al fondo, è stata questo: un tentativo estremo, fino al limite delle forze e anche della ragione, per cercare di contenere un mondo che si stava disfacendo, ponendo le basi di una riforma, anzi di una renovatio, che per poter avere successo doveva essere in primo luogo di carattere etico, civile, militare e religioso.
È nell’Arte della guerra, e nelle rappresentazioni “teatrali” di Fabrizio Colonna, interlocutore principale dell’opera, che questa dimensione visionaria appare in forme più appassionate e coinvolgenti.
Estraneo a pulsioni o considerazioni di tipo moralistico, Machiavelli è uomo della moralità, dell’ethos civile, dello Stato. O si capisce questo o non si intende il carattere profondo della sua tormentata esperienza umana e intellettuale, confondendolo con il machiavellismo: l’esatto contrario di quello che egli è stato.
Machiavelli dunque è stato, e continua ad essere, una presenza capace di attraversare il tempo, e un’inevitabile pietra d’inciampo. Perché ha ancora molto da dire. Sta a noi riuscire ad ascoltare la sua voce. Riportandolo, in una parola, tra di noi.
Si può fare, ed è quello che si è cercato di fare in questo libro: al fondo, i problemi fondamentali dell’uomo hanno mutato forma, ma sono stati sempre gli stessi; e questo vuol dire che i problemi del Segretario sono ancora oggi, in altra maniera, anche i nostri, e tali resteranno finché la “politica” – la potenza della politica – continuerà ad avere, come ha avuto nella tradizione occidentale – dai greci fino al XX secolo –, un ruolo centrale nell’esistenza umana. Quando questo nesso si spezzerà – e può accadere, anzi forse sta accadendo – solo allora anche Machiavelli si allontanerà da noi. Ma vorrà dire che è nato un altro mondo, differente dal nostro. Come dice un filosofo che l’ha conosciuto e rispettato: «il tempo tutto toglie e tutto dà».