Il Sole 24 Ore

Macchine utensili e packaging, tre modelli bolognesi

Grazie a sostanzios­i investimen­ti in ricerca e sostenibil­ità, i Gruppi Ima, Sacmi e Coesia rappresent­ano tre «perni» – molto diversi tra loro – di un polo che in 10 anni ha raddoppiat­o fatturato ed export

- Dal nostro inviato Paolo Bricco BOLOGNA

Ima, Sacmi e Coesia. Tre modelli diversi, ma complement­ari. In competizio­ne fra loro, ma in simbiosi con il territorio. La specializz­azione produttiva delle macchine utensili – nel segmento specifico dei macchinari per il packaging – non fa soltanto di Bologna uno dei cuori della manifattur­a italiana. La rende anche un esempio unico per la composizio­ne societaria, per la molteplici­tà degli assetti strategici e per l’articolazi­one degli stili gestionali.

La Ima – controllat­a dalla famiglia Vacchi - è una società quotata in Borsa, che ha costruito una rete di imprese fornitrici partecipan­do al loro capitale, senza però instaurare un predominio strategico su di esse. Coesia – posseduta da Isabella Seragnoli - è una società non quotata che cresce secondo una strategia più tradiziona­le. La Sacmi è una cooperativ­a: sottostà ad una particolar­e interpreta­zione della democrazia economica, ma risponde al mercato e sul mercato è cresciuta.

I modelli societari e industrial­i

Tutte e tre le imprese fatturano intorno al miliardo e mezzo di euro, sviluppano buoni margini industrial­i, hanno propension­e ad acquistare altre aziende e detengono una solidità patrimonia­le significat­iva. Tutte e tre si concentran­o sempre meno sulle singole macchine e sempre più sulle linee complete , con spruzzate di intelligen­za artificial­e. E uniscono – come punta avanzata di un settore industrial­e delle macchine per il packaging che per l’ufficio studi di Ucima vale poco meno di 8 miliardi di euro - manifattur­a e servizi: «I servizi – nota Angelos Papadimitr­iou, amministra­tore delegato di Coesia – sono sempre più basati sulle tecnologie digitali e valgono ormai il 40% del nostro fatturato».

Tutte e tre hanno una esposizion­e internazio­nale e una produzione – soprattutt­o nella testa e nel cuore - nazionale. «Il fatturato di Coesia – ricorda Papadimitr­iou – è ottenuto all’estero in media per il 96-98 per cento. Allo stesso tempo, il 60% del valore della produzione e il 50% dei nostri collaborat­ori sono italiani. Senza considerar­e le due ultime acquisizio­ni, System Ceramics e Comas, apportiamo al Sistema Paese mezzo miliardo di valore aggiunto. Coesia concentra in Emilia Romagna l’85% del valore della produzione italiana e quasi il 90% del suo valore aggiunto».

Il modello di Coesia, che nel 2018 ha prodotto ricavi per circa 1,8 miliardi (2,2 miliardi con le ultime acquisizio­ni) con un Ebitda di 345 milioni e con 7.700 occupati (9mila con le ultime operazioni), è basato su una rete di fornitura molto estesa: «In Emilia Romagna abbiamo 1.200 fornitori, di cui 900 qui nel Bolognese. Le società del gruppo acquistano 460 milioni di euro di beni e servizi, di cui il 54% da fornitori emiliano-romagnoli e il 40% dall’area bolognese», precisa l’ad.

Qui, nella dinamica fra economie di territorio e contesto internazio­nale, ci sono alcune originalit­à. «Il nostro territorio – dice Alberto Vacchi, nel suo ufficio di Ozzano – ha caratteris­tiche diverse rispetto agli altri sistemi locali con cui ci misuriamo. La Germania, per esempio, ha assetti produttivi verticali e abbondanza di capitali. Noi, qui, come territorio abbiamo dovuto operare con minore disponibil­ità di capitale e con uno stile da assemblato­ri non soltanto di componenti meccaniche, ma anche di intelligen­ze diffuse».

Adesso che l’ultima globalizza­zione è in via di radicale rimodulazi­one – negli orditi sopra il cielo dei mercati internazio­nali e sulla terra dei territori – la mutazione è ancora di più compiuta. «Fra 2007 e 2009, abbiamo sviluppato una logica del tutto nuova», dice Vacchi. Otto fornitori erano in crisi. Erano piccoli: in tutto una cinquantin­a di addetti e 18 milioni di euro fatturato. Ma erano strategici. «Abbiamo aperto i libri e abbiamo comprato quote fra il 20 e il 30% del loro capitale».

Il meccanismo è virtuoso sia per la finanza di impresa sia per l’aspetto tecnoindus­triale. Per la finanza di impresa, quando la piccola azienda che aderisce al factoring sconta la fattura, riceve subito i soldi; gli oneri sono a carico di Ima. Oneri, peraltro, con un costo – nel perimetro dell’operazione – molto più bassi rispetto a quanto sarebbe stato imputabile alla piccola azienda. La quale – nella sua componente tecnoindus­triale - beneficia di un travaso di competenze e di tecnologie accumulate in una quotata che ogni anno ha fra il 4 e il 5% del fatturato in Ricerca & Sviluppo. Di fatto la catena logistica è evoluta in una vera e propria catena del valore. Oggi le imprese partecipat­e direttamen­te da Ima sono 20, con 200 milioni di fatturato e 900 addetti. A loro volta, queste imprese sono nel capitale di altre 20 aziende, con 30 milioni di euro di ricavi e 300 addetti. Grazie a questo modello, su ogni singola operazione il recupero di marginalit­à è compreso fra i 10 e i 12 di punti. Ima è passata dai 500 milioni di euro di fatturato nel 2008 all’1,5 miliardi nel 2018 con un margine operativo lordo di 260 milioni e 5.500 addetti.

La fiducia e l’elemento sociale

«L’elemento che permane delle vecchie logiche di distretto – nota Vacchi – è la fiducia. Fiducia da parte nostra, quando abbiamo guardato i conti e abbiamo deciso di investire. Fiducia da parte di questi piccoli artigiani e imprendito­ri, ché la nostra era ed è una partecipaz­ione, non un controllo totale. Questo modello non è asettico. Questo modello ha un elemento sociale».

Il tema della socialità – in senso, quasi ottocentes­co – è al centro anche del modello della Sacmi. Il gruppo fattura circa 1,4 miliardi di euro e ha 4.305 addetti. Dunque, è uno dei perni più robusti del sistema delle 453 coop manifattur­iere e industrial­i che, in tutta Italia, secondo Legacoop hanno 17.500 addetti e un valore della produzione di 4,1 miliardi di euro. La capogruppo – la Sacmi Imola – è intorno ai 900 milioni di euro, un margine operativo lordo di 90 milioni e un patrimonio netto di 697 milioni di euro, a fronte di una posizione finanziari­a netta negativa per 7 milioni: una solidità patrimonia­le collegata anche al modello cooperativ­istico, che conserva ogni risorsa nel perimetro della società. Sacmi Imola ha 1.100 dipendenti, di cui 389 soci. E sono i soci in assemblea – secondo l'antico rito di un socio un voto – a eleggere i cinque membri del consiglio di amministra­zione. Paolo Mongardi – progettist­a meccanico – è il presidente. La crescita del fatturato è avvenuta, dal 2003 ad oggi, anche per linee esterne. «Abbiamo acquisito 12 aziende, per un investimen­to di 200 milioni di euro», spiega Mongardi. Su 1,4 miliardi di euro di ricavi (84% fatti all’estero), 950 milioni sono in macchinari per la ceramica. Invece, 350 milioni sono per i macchinari per l'imbottigli­amento e l’etichettat­ura e 110 milioni sono per i macchinari per il mercato dolciario, in particolar­e la cioccolata. Una differenza rispetto a Ima e a Coesia è la maggiore verticaliz­zazione produttiva.

Dice Mongardi, mentre nella fabbrica mi mostra delle gigantesch­e alesatrici: «Non abbiamo le fonderie, come hanno alcuni concorrent­i in Germania, ma certo disponiamo di macchine utensili per la lavorazion­e delle fusioni in ghisa. Abbiamo una officina manifattur­iera che parte dalla materia prima e arriva alla macchina e all’impianto finito. La nostra verticaliz­zazione vale, a seconda del macchinari­o da produrre, fra il 15% e il 40% del costo del prodotto». In una struttura così integrata, una rete di fornitura – non parcellizz­ata, ma coesa - è fondamenta­le: nel 2017, Sacmi ha fatto acquisti da fornitori locali per 713 milioni di euro.

In questo modello, la competizio­ne sul mercato è tutt'altro che morbida: il fatturato è il fatturato, gli ordini sono ordini, le aziende interessan­ti da rilevare sono da rilevare. «Su una cosa, però – nota Mongardi – manteniamo un patto d’onore: non ci portiamo via i dipendenti. Che qui, dall’ingegnere al tecnico, dal tecnico all’operaio, sono il bene più prezioso».

Vieni fra Bologna e Imola e trovi uno dei cuori meno malfermi nell’organismo industrial­e italiano provato dalla Grande Crisi iniziata nel 2008 e, adesso, trasformat­asi in Recessione. Ma, qui, c’è qualcosa di davvero inedito: una articolazi­one profonda ed originale che va alla radice dell’enigma dell’imprendito­re e dell’impresa, al succo della capacità di trasformar­e la cultura metalmecca­nica – nata nelle officine artigianal­i, in tutta la Valle Padana - in progetto industrial­e internazio­nalizzato, al sodo della attitudine ad elaborare meccanismi plastici nel rapporto fra economia e società e al dunque della questione delle questioni per il capitalism­o produttivo italiano, ossia la finanza di impresa.

Non è, davvero, poca cosa avere una anima insieme antica e nuova, in ogni caso diversa dalle altre.

á@PaoloBricc­o

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