Macchine utensili e packaging, tre modelli bolognesi
Grazie a sostanziosi investimenti in ricerca e sostenibilità, i Gruppi Ima, Sacmi e Coesia rappresentano tre «perni» – molto diversi tra loro – di un polo che in 10 anni ha raddoppiato fatturato ed export
Ima, Sacmi e Coesia. Tre modelli diversi, ma complementari. In competizione fra loro, ma in simbiosi con il territorio. La specializzazione produttiva delle macchine utensili – nel segmento specifico dei macchinari per il packaging – non fa soltanto di Bologna uno dei cuori della manifattura italiana. La rende anche un esempio unico per la composizione societaria, per la molteplicità degli assetti strategici e per l’articolazione degli stili gestionali.
La Ima – controllata dalla famiglia Vacchi - è una società quotata in Borsa, che ha costruito una rete di imprese fornitrici partecipando al loro capitale, senza però instaurare un predominio strategico su di esse. Coesia – posseduta da Isabella Seragnoli - è una società non quotata che cresce secondo una strategia più tradizionale. La Sacmi è una cooperativa: sottostà ad una particolare interpretazione della democrazia economica, ma risponde al mercato e sul mercato è cresciuta.
I modelli societari e industriali
Tutte e tre le imprese fatturano intorno al miliardo e mezzo di euro, sviluppano buoni margini industriali, hanno propensione ad acquistare altre aziende e detengono una solidità patrimoniale significativa. Tutte e tre si concentrano sempre meno sulle singole macchine e sempre più sulle linee complete , con spruzzate di intelligenza artificiale. E uniscono – come punta avanzata di un settore industriale delle macchine per il packaging che per l’ufficio studi di Ucima vale poco meno di 8 miliardi di euro - manifattura e servizi: «I servizi – nota Angelos Papadimitriou, amministratore delegato di Coesia – sono sempre più basati sulle tecnologie digitali e valgono ormai il 40% del nostro fatturato».
Tutte e tre hanno una esposizione internazionale e una produzione – soprattutto nella testa e nel cuore - nazionale. «Il fatturato di Coesia – ricorda Papadimitriou – è ottenuto all’estero in media per il 96-98 per cento. Allo stesso tempo, il 60% del valore della produzione e il 50% dei nostri collaboratori sono italiani. Senza considerare le due ultime acquisizioni, System Ceramics e Comas, apportiamo al Sistema Paese mezzo miliardo di valore aggiunto. Coesia concentra in Emilia Romagna l’85% del valore della produzione italiana e quasi il 90% del suo valore aggiunto».
Il modello di Coesia, che nel 2018 ha prodotto ricavi per circa 1,8 miliardi (2,2 miliardi con le ultime acquisizioni) con un Ebitda di 345 milioni e con 7.700 occupati (9mila con le ultime operazioni), è basato su una rete di fornitura molto estesa: «In Emilia Romagna abbiamo 1.200 fornitori, di cui 900 qui nel Bolognese. Le società del gruppo acquistano 460 milioni di euro di beni e servizi, di cui il 54% da fornitori emiliano-romagnoli e il 40% dall’area bolognese», precisa l’ad.
Qui, nella dinamica fra economie di territorio e contesto internazionale, ci sono alcune originalità. «Il nostro territorio – dice Alberto Vacchi, nel suo ufficio di Ozzano – ha caratteristiche diverse rispetto agli altri sistemi locali con cui ci misuriamo. La Germania, per esempio, ha assetti produttivi verticali e abbondanza di capitali. Noi, qui, come territorio abbiamo dovuto operare con minore disponibilità di capitale e con uno stile da assemblatori non soltanto di componenti meccaniche, ma anche di intelligenze diffuse».
Adesso che l’ultima globalizzazione è in via di radicale rimodulazione – negli orditi sopra il cielo dei mercati internazionali e sulla terra dei territori – la mutazione è ancora di più compiuta. «Fra 2007 e 2009, abbiamo sviluppato una logica del tutto nuova», dice Vacchi. Otto fornitori erano in crisi. Erano piccoli: in tutto una cinquantina di addetti e 18 milioni di euro fatturato. Ma erano strategici. «Abbiamo aperto i libri e abbiamo comprato quote fra il 20 e il 30% del loro capitale».
Il meccanismo è virtuoso sia per la finanza di impresa sia per l’aspetto tecnoindustriale. Per la finanza di impresa, quando la piccola azienda che aderisce al factoring sconta la fattura, riceve subito i soldi; gli oneri sono a carico di Ima. Oneri, peraltro, con un costo – nel perimetro dell’operazione – molto più bassi rispetto a quanto sarebbe stato imputabile alla piccola azienda. La quale – nella sua componente tecnoindustriale - beneficia di un travaso di competenze e di tecnologie accumulate in una quotata che ogni anno ha fra il 4 e il 5% del fatturato in Ricerca & Sviluppo. Di fatto la catena logistica è evoluta in una vera e propria catena del valore. Oggi le imprese partecipate direttamente da Ima sono 20, con 200 milioni di fatturato e 900 addetti. A loro volta, queste imprese sono nel capitale di altre 20 aziende, con 30 milioni di euro di ricavi e 300 addetti. Grazie a questo modello, su ogni singola operazione il recupero di marginalità è compreso fra i 10 e i 12 di punti. Ima è passata dai 500 milioni di euro di fatturato nel 2008 all’1,5 miliardi nel 2018 con un margine operativo lordo di 260 milioni e 5.500 addetti.
La fiducia e l’elemento sociale
«L’elemento che permane delle vecchie logiche di distretto – nota Vacchi – è la fiducia. Fiducia da parte nostra, quando abbiamo guardato i conti e abbiamo deciso di investire. Fiducia da parte di questi piccoli artigiani e imprenditori, ché la nostra era ed è una partecipazione, non un controllo totale. Questo modello non è asettico. Questo modello ha un elemento sociale».
Il tema della socialità – in senso, quasi ottocentesco – è al centro anche del modello della Sacmi. Il gruppo fattura circa 1,4 miliardi di euro e ha 4.305 addetti. Dunque, è uno dei perni più robusti del sistema delle 453 coop manifatturiere e industriali che, in tutta Italia, secondo Legacoop hanno 17.500 addetti e un valore della produzione di 4,1 miliardi di euro. La capogruppo – la Sacmi Imola – è intorno ai 900 milioni di euro, un margine operativo lordo di 90 milioni e un patrimonio netto di 697 milioni di euro, a fronte di una posizione finanziaria netta negativa per 7 milioni: una solidità patrimoniale collegata anche al modello cooperativistico, che conserva ogni risorsa nel perimetro della società. Sacmi Imola ha 1.100 dipendenti, di cui 389 soci. E sono i soci in assemblea – secondo l'antico rito di un socio un voto – a eleggere i cinque membri del consiglio di amministrazione. Paolo Mongardi – progettista meccanico – è il presidente. La crescita del fatturato è avvenuta, dal 2003 ad oggi, anche per linee esterne. «Abbiamo acquisito 12 aziende, per un investimento di 200 milioni di euro», spiega Mongardi. Su 1,4 miliardi di euro di ricavi (84% fatti all’estero), 950 milioni sono in macchinari per la ceramica. Invece, 350 milioni sono per i macchinari per l'imbottigliamento e l’etichettatura e 110 milioni sono per i macchinari per il mercato dolciario, in particolare la cioccolata. Una differenza rispetto a Ima e a Coesia è la maggiore verticalizzazione produttiva.
Dice Mongardi, mentre nella fabbrica mi mostra delle gigantesche alesatrici: «Non abbiamo le fonderie, come hanno alcuni concorrenti in Germania, ma certo disponiamo di macchine utensili per la lavorazione delle fusioni in ghisa. Abbiamo una officina manifatturiera che parte dalla materia prima e arriva alla macchina e all’impianto finito. La nostra verticalizzazione vale, a seconda del macchinario da produrre, fra il 15% e il 40% del costo del prodotto». In una struttura così integrata, una rete di fornitura – non parcellizzata, ma coesa - è fondamentale: nel 2017, Sacmi ha fatto acquisti da fornitori locali per 713 milioni di euro.
In questo modello, la competizione sul mercato è tutt'altro che morbida: il fatturato è il fatturato, gli ordini sono ordini, le aziende interessanti da rilevare sono da rilevare. «Su una cosa, però – nota Mongardi – manteniamo un patto d’onore: non ci portiamo via i dipendenti. Che qui, dall’ingegnere al tecnico, dal tecnico all’operaio, sono il bene più prezioso».
Vieni fra Bologna e Imola e trovi uno dei cuori meno malfermi nell’organismo industriale italiano provato dalla Grande Crisi iniziata nel 2008 e, adesso, trasformatasi in Recessione. Ma, qui, c’è qualcosa di davvero inedito: una articolazione profonda ed originale che va alla radice dell’enigma dell’imprenditore e dell’impresa, al succo della capacità di trasformare la cultura metalmeccanica – nata nelle officine artigianali, in tutta la Valle Padana - in progetto industriale internazionalizzato, al sodo della attitudine ad elaborare meccanismi plastici nel rapporto fra economia e società e al dunque della questione delle questioni per il capitalismo produttivo italiano, ossia la finanza di impresa.
Non è, davvero, poca cosa avere una anima insieme antica e nuova, in ogni caso diversa dalle altre.
á@PaoloBricco
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