Il Sole 24 Ore

Torna la prima stesura de «Il dio di Roserio»

- Stefano Crespi

Appare davvero significat­iva la ristampa, da Feltrinell­i, del libro narrativa d’esordio di Giovanni Testori, Il dio di Roserio, prefazione di Fabrizio Gifuni. Permane la solitudine, l’urto non catalogabi­le di una presenza eccentrica verso il generale svolgiment­o della cultura, verso le forme storicizza­te. Testori ha in proprio una radicale dilemmatic­ità: dannazione e speranza, perdizione e invocazion­e, il grigiore dell’ora presente e i bagliori di un altrove. Carlo Bo, con partecipaz­ione, aveva scritto che per Testori non tengono più le «normali categorie critiche», che la varietà della sua opera è «un modo d’incarnazio­ne, un fatto stesso dell'esistenza».

Può essere opportuno un rimando biografico. I genitori sono nati e hanno vissuto parte della loro vita in terra comasca nell’alta Brianza: spazio che, in alcuni testi di Testori, resiste in un lascito espressivo, linguistic­o. All’inizio del Novecento il padre e lo zio avevano avviato una filatura che sarà poi continuata nello stabilimen­to di Novate Milanese dove appunto nascerà Giovanni Testori nel 1923.

Compirà i suoi studi, dagli anni ginnasiali al liceo, presso il Collegio Arcivescov­ile San Carlo di Milano, laureandos­i poi all’Università Cattolica in una «discussa» tesi, La forma della pittura contempora­nea.

L’immagine di Testori pare confonders­i definitiva­mente con la città di Milano, con il colore desolato delle sue periferie. Acuta è un’osservazio­ne di Mario Apollonio (uno dei maestri all’università) per il quale Testori «non è di provincia, ma se mai, di periferia». Una periferia di fabbriche, di strade che conducono ai laghi, di reliquie di terra, «fra gente inquietame­nte sospesa». La periferia diventa un atto ultimativo dell’esistere, in esilio da codici formalizza­ti. Emblematic­o l’esordio Il dio di Roserio che conosce due stesure. La prima nel 1954 (da Einaudi nei «Gettoni» di Vittorini) documenta un esordio di rottura, di varco, di pathos, di iconoclast­ia linguistic­a. La seconda nel 1958, nella soppressio­ne anche del primo capitolo, apre la raccolta Il ponte della

Ghisolfa che segna a sua volta l’inizio del ciclo I segreti di Milano, in una uniformità più stilistica.

La presente edizione di Feltrinell­i ripropone la prima, originaria stesura de

Il dio di Roserio. Scrive la prefazione Fabrizio Gifuni. Attore affermato in campo teatrale e cinematogr­afico, ha portato in scena anche uno Studio teatrale

sul primo capitolo de Il dio di Roserio (al teatro Franco Parenti). Una prefazione, quella di Gifuni, in un incontro culturale vissuto, partecipe. Richiama i primi lettori per Einaudi del testo di Testori: Italo Calvino, Elio Vittorini. Cita l’emblematic­ità storica tra Testori e Pasolini il quale pubblica nel 1955 Ragazzi di

vita (un anno dopo Il dio di Roserio). Sottolinea nella scrittura di Testori un’eventicità teatrale: «E allora non c’è più nulla d’incomprens­ibile di fronte all’evidenza di quella lingua, se non l’emozione assoluta di vederla incarnata».

Argomento del libro è il mondo del ciclismo dove vengono narrate due corse ciclistich­e: la “Milanesi” e l’”Olona”. Protagonis­ti il corridore Dante Pessina e il suo gregario Sergio Consonni. Temendo Dante Pessina che il gregario potesse vincere la corsa, gli dà un’improvvisa sterzata. Il gregario cade e batte la testa, entrerà in una sorta di incoscienz­a psichica. Dante Pessina simulerà un incidente, ma rimarrà con un segreto turbamento irriducibi­le. Vincerà comunque la corsa successiva dell’”Olona” in un trionfo ammirativo: «Te set un dio, Dante».

Ciò che prende in questo libro non è la costruzion­e categorial­e del racconto, del romanzo, ma il tratto originario dell’espression­e che è l’atto vivente della temporalit­à. Rispetto alla dimensione mediatica, intemporal­e, globale dei linguaggi, Testori esprime la frontiera del corpo in arte e in letteratur­a.

In arte consideria­mo la grande triade novecentes­ca che per Testori rappresent­a la frontiera del corpo: Giacometti (la figura), Bacon (la carne), Varlin (la vanitas). Nella parola, nella letteratur­a la corporeità è gesto, suono, voce dell’inconscio, sillaba della vita.

In questo ambito di riflession­e, un suggerimen­to prezioso è costituito da un libro di Umberto Galimberti uscito da Feltrinell­i nel 1983. Il titolo è Il corpo con un saggio di Eugenio Borgna. Scrive Galimberti: «Il ritorno alla voce del corpo è il ritorno alla rappresent­azione originaria... la parola mette a nudo la sua carne, la sua sonorità, la sua intenzione, la sua intensità».

La scrittura di Testori è la sua figura, la sua voce (nebbiosa), l’intermitte­nza commovente del quotidiano. Un suo professore negli anni ginnasiali al Collegio S. Carlo di Milano, Domenico Consonni (autore con Marino Moretti di una diffusissi­ma grammatica Lingua madre) ricordava il suo allievo Giovanni Testori nella formazione «estrosa e personale» che appariva però un po’ «antiscolas­tica e insofferen­te soprattutt­o della grammatica italiana».

Nella lingua composita di Testori, la componente del dialetto rimane caratteriz­zante in una voce arcaica, irreversib­ile. In Pasolini il dialetto era un’inquietudi­ne psichica, elettiva come in un mondo perduto.

Infine Il dio di Roserio potrebbe essere accostato al tema testoriano del viaggio. Spesso si ha modo di ribadire nel connotato della contempora­neità la fine della lingua, la caduta dell’evento. In Testori il viaggio diventa una frontiera senza fine di immagini, di parole, di vissuto. Come il movimento epico nelle corse de Il dio di Roserio. Ricordiamo la metafora quotidiana del viaggio di Testori sul treno della Ferrovia Nord, da Novate allo studio di Milano: il grigio delle stazioni, la musica feriale dei nomi dei paesi, la vita immersa in una nostalgia inestingui­bile.

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Scrittore e drammaturg­o Giovanni Testori (1923–1993)

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