Dai Galli ai nazisti: sette saccheggi a Roma
Matthew Kneale. Gli esempi mostrano la capacità di rinascere della capitale
Matthew Kneale è uno scrittore inglese, figlio e nipote di scrittori. Ha pubblicato cinque romanzi e una precedente opera di saggistica, An Atheist’s History of Belief. La seconda ha deciso di dedicarla alla città nella quale vive da quindici anni con la sua famiglia, su cui molto, forse troppo, è già stato scritto e di cui, confessa, a lungo non sapeva come scrivere. Poi un’idea gli è venuta: concentrarsi su alcuni momenti, nella storia della città, in cui era stata saccheggiata. Ne ha scelti sette, come i classici colli su cui è fondata, e ha scritto Rome: A History in Seven Sackings.
La struttura che ne risulta è un po’ artificiosa. Di saccheggiamenti in piena regola ce ne sono stati (anche se, curiosamente, Kneale sceglie di non trattare quello dei vandali nel 455). Nel 387 a.C. Brenno, re dei Galli, sconfisse i romani al fiume Allia, entrò in città razziando e uccidendo, pretese un pagamento in oro e fu poi sconfitto da Furio Camillo. Nel 410 Alarico ispirò Agostino a parlare, nella Città di Dio, dell’inevitabile decadenza della città degli uomini. Nel 546 Totila, re degli Ostrogoti, fece sconquassi ma si calmò presto e progettò di fare di Roma la sua capitale, organizzando corse di cavalli nel Circo Massimo. Nel 1084 Roberto il Guiscardo entrò brevemente nell’Urbe per liberare il suo alleato, papa Gregorio VII, deposto da Enrico IV di Franconia (quello del dramma di Pirandello) e prigioniero volontario in Castel Sant’Angelo, e se ne andò causando parecchi danni. E, soprattutto, nel 1527 i Lanzichenecchi di Carlo Quinto sottoposero i residenti a mesi e mesi di massacri e distruzione, di ruberie e torture. Gli ultimi due eventi descritti da Kneale sembrano però di natura diversa. I francesi del generale Oudinot nel 1849 soffocarono nel sangue la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi ma solo per riconsegnarla a quello che ne consideravano il legittimo proprietario, Pio IX. Quanto ai nazisti nel 1943/44, si macchiarono certo di atti infami, come il rastrellamento del ghetto e l’eccidio delle Fosse ardeatine, ma il loro difficilmente potrebbe essere giudicato un saccheggio.
Rimane il fatto che da eventi così eterogenei emerge un messaggio unitario: quello che fa esordire Kneale, nella prima riga del suo libro, con le parole «Non c’è un’altra città come Roma». Quale interpretazione dobbiamo dare a questa frase? Ci sono città più antiche, più grandi e più vitali, e ce ne sono che hanno avuto, o tuttora hanno, un potere maggiore, su domini più vasti. Ma forse nessuna ha avuto la forza di rinascere dalle sue ceneri con tanta frequenza e tanto ripetuto successo. In questo senso, le distruzioni causate da eserciti occupanti e bande di saccheggiatori sono una preziosa metafora: mostrano un organismo in grado di reincarnarsi come la Roma dei papi dopo il crollo dell’Impero d’Occidente, o come la splendida Roma barocca dopo gli orrori perpetrati dai soldati imperiali, e ci invitano a fare omaggio allo stesso spirito anche quando occupazioni e saccheggi non ci sono stati. Ad ammirare una città che ha saputo sopravvivere all’annientamento delle sue forze da parte di Annibale, all’esilio dei papi ad Avignone e alla tragicommedia del fascismo, delle sue ridicole cerimonie e della sua guerra insana.
Valga per tutti l’episodio in cui quest’ultima tragicommedia trova il suo grottesco, indegno sottofinale (il finale vero e proprio sarà a Milano, in piazza Loreto). L’armistizio con gli alleati fu firmato a Cassibile il 3 settembre e annunciato l’8. Il re, Badoglio e gli altri dignitari ebbero cinque giorni per preparare la resa della nazione e la difesa della sua capitale. Che cosa fecero? In una parola, niente. Nient’altro, cioè, che spedire parenti in Svizzera e in Marocco; nient’altro che scappare loro stessi segretamente con armi e bagagli; nient’altro che usare quel che rimaneva a disposizione della marina e dell’esercito italiani per proteggere la loro fuga, a costo di lasciare Roma senza protezione. Uno dei tanti esempi in una storia millenaria in cui la città fu tradita dai suoi capi: da coloro che avrebbero dovuto guidarla e assisterla. E uno dei tanti esempi in cui, per tutta risposta, Roma seppe fare a meno e di meglio di quei capi: guadagnare nuova dignità con la resistenza ai tedeschi, nascondere gli ebrei (se ne salvarono diecimila su dodicimila) e infine, insieme con l’Italia tutta, scacciare il re e proclamare la Repubblica.
Kneale riporta le lamentele secolari dei turisti per la sporcizia di Roma, per i parassiti che la infestano, per gli imbrogli consumati da albergatori e padroni di casa, per violenze e crimini, per le richieste ossessive dei mendicanti. Nulla di nuovo sotto il sole: i motivi per lamentarsi sono ancora gli stessi. È possibile che, stemperata l’animosità dopo aver acquisito un’opportuna distanza temporale, riusciremo a vedere anche i guai di oggi come l’altra faccia della medaglia di una sempiterna grandezza? E come si manifesterebbe, ai nostri giorni, la grandezza? ROME: A HISTORY IN SEVEN SACKINGS
Matthew Kneale New York, Simon & Schuster pagg. xiv+417, $ 30