L’Italia delle crisi laceranti
Massimo L. Salvadori. Le tre stagioni politico-istituzionali (il regime liberal-monarchico, quello fascista e l’esperienza democratica) sono state accompagnate da esasperate conflittualità
Per decenni la storiografia sull’Italia unita ha oscillato fra due poli che, scarnificati, possono essere racchiusi in due letture. La prima, influenzata dal cliché delle occasioni mancate, data dai guasti derivanti dal modo in cui l’Unità si compì e dalla lentezza inerziale con la quale il nuovo Stato seppe agganciare la modernità. La seconda, meno rappresentata, si è impegnata in un’analisi fin troppo reboante dei successi che una nazione giovane e fragile avrebbe potuto raggiungere. Questa sintesi interpretativa di Massimo L. Salvadori, uno dei più autorevoli storici italiani, si muove sulla linea di
confine fra quei due segmenti in
terpretativi, che oggi mostrano l’usura del tempo. Tutta la feconda bibliografia di Salvadori è impostata su una proposta analitica capace di incorniciare i caratteri dell’esperienza storica italiana nel più ampio contesto internazionale, la cui forza si è fatta (nel secolo e mezzo d’Unità) condizionante rispetto al corso politico interno, e alle sue storture. Non sorprende, dunque, che anche in questo ennesimo confronto con la storia nazionale Salvadori rifiuti – pur misurandosi con essi – gli stereotipi più persistenti. L’eterna transizione verso il nulla che costituisce il midollo di moltissime sintesi di storia italiana non è lo sfondo su cui l’autore di questo libro si muove. Sono piuttosto i tormenti, le accelerazioni e le frenate, il fondo di continuità e le rotture su cui i protagonisti, fossero essi i partiti o le élites economiche, si sono mosse e con quale efficacia lo fecero rispetto alle aspettative di un’unificazione nata per aggiunzioni e poi rimasta impigliata nelle contraddizioni dei territori che aveva legato in una nazione.
La narrazione di Salvadori si muove sulle tre stagioni politicoistituzionali della vicenda nazionale – il regime liberal-monarchico, quello fascista e l’esperienza democratica – che si sarebbero cristallizzate sulla polarizzazione tra forze di governo e opposizioni a esso. Tale antinomia ha conosciuto solo sporadiche contraddizioni e ha invece pervaso, oltre che – com’è immaginabile – il ventennio mussoliniano, anche l’esperienza repubblicana. Ogni generalizzazione non giova a capire quanto la “radicalità” dell’opposizione politica ai regimi sia stata complessa. Essa non fu mai pietrificata o monocratica, e infatti l’autore costruisce delle interpretazioni che segnalano delle costanti e danno conto dell’evoluzione dei partiti e del loro aggiornamento culturale o della loro arretratezza.
La dinamica fra le forze di governo e i suoi oppositori – osserva l’autore – ha toccato a più riprese vertici di conflittualità che hanno rallentato lo sviluppo di una dialettica politica capace di allineare il discorso pubblico italiano a ciò che democrazie più mature sperimentavano. Salvadori nota come il collasso dei regimi italiani e le crisi di sistema siano coincisi (tranne che nel 1992) con altrettanti crolli delle istituzioni il cui credito non era stato sufficientemente rafforzato dall’esperienza politica. Fu così dopo la prima guerra mondiale, quando un regime che aveva almeno formalmente avverato il sogno di partecipare al tavolo delle grandi potenze fu soffocato dall’inanità, cioè dalla sua incapacità di dare seguito all’enorme sacrificio della guerra. Mentre a Versailles Orlando sedeva fra Wilson, Lloyd George e Clemenceau, in Italia si consumava la violenta crisi istituzionale che spalancò le porte alla reazione e al collasso del regime che aveva guidato il primo cinquantennio unitario. Fu un passaggio destinato a ripetersi in forme e modi dissimili, ma che confermano l’esasperazione del confronto politico. Si trattò, in quel caso, dell’avvio di una rovinosa discesa nei tornanti della “rivoluzione fascista”, sempre sostenuta da oligarchie dominanti estranee alla retorica dell’uomo nuovo che nutriva la sintassi politica dell’Italia “grande proletaria”.
Salvadori mostra come anche la nascita della Repubblica si sia imperniata su un confronto che assunse i toni di uno scontro lacerante, specie se considerato alla luce della collaborazione antifascista bruscamente terminata nella primavera del 1947. A quel punto, tuttavia, gli spazi nei quali il Paese poteva muoversi furono drammaticamente limitati dalla sua “nuova” collocazione internazionale, che finì per condizionare praticamente ogni aspetto del riformismo del ventennio postbellico. Un “riformismo dall’alto”, è vero, ma capace di affrontare con una visione modernizzatrice e con una certa originalità alcuni nodi del dualismo nazionale, e consentì al Paese di conquistare un ruolo nell’economia e nelle istituzioni internazionali impensabile anche solo all’inizio degli anni Cinquanta. Ma se alla fine dei Trenta gloriosi l’Italia era socialmente trasformata, economicamente evoluta, pienamente inserita in processi globali che aveva partecipato a costruire, le tensioni di un sistema politico bloccato ed endemicamente conflittuale riemersero con forza. Il ventennio che precede la crisi istituzionale del 1992-94 è un periodo di incubazione in cui la superficie sulla quale era maturata la modernizzazione del paese si spacca, e la capacità di affrontare i problemi si incaglia in uno stallo che conosce qualche pallido ma enfatico colpo di coda col secondo centrosinistra. Unica contraddizione a ciò appare il ruolo nella costruzione europea esercitato con convinzione dalle classi dirigenti nazionali.
All’ultimo tratto è dedicata la coda della narrazione, che sfuma sul referendum Renzi-Boschi: vacuo crepuscolo del ventennio cominciato con il collasso della Repubblica dei partiti. È difficile misurare non teleologicamente le conseguenze della fine di una stagione che era apparsa a molti – benché palesemente fatta solo di storytelling – una forma di temperato progressismo capace di fermare il declino sperimentato dal Paese dalla fine della Guerra fredda, e poi incalzato dalla Grande contrazione di inizio secolo. Quanto emerge dalle fasi più prossime della vicenda nazionale è però la tendenza a rimandare la costruzione di una visione su quale sia il ruolo dell’Italia nel mondo contemporaneo: l’assenza di un disegno capace di superare fatui slogan. Per questo motivo, riuscire a collocare le storie nazionali europee nel contesto dell’integrazione continentale che fra mille contraddizioni esse hanno costruito non è un esercizio accademico, quanto un dovere civile di cui questo lavoro è testimone. STORIA D’ITALIA. IL CAMMINO TORMENTATO DI UNA NAZIONE, 1861-2016
Massimo L. Salvadori,
Einaudi, Torino, pagg. 552, € 38