Un Moser dai molti talenti
Vienna. A cent’anni dalla morte, il MAK celebra il grande designer, grafico, arredatore di interni austriaco, che fu anima della Secessione e delle Wiener Werkstätte
Al designer e grafico Koloman Moser, è dedicata una grande mostra al MAK di Vienna che rappresenta il clou di un anno di celebrazioni in vari luoghi della città, per ricordare i cento anni dalla morte di questo grande personaggio(1918-2018).
La rassegna in onore di Koloman Moser – anima della Secessione prima, delle Wiener Werkstätte poi- è un tentativo per Vienna di ricostruire l’identità dimenticata di cosmopolita e raffinata capitale del moderno. E lo fa con generoso spargimento di incensi profumati, quasi ad evocare il sublime falò delle vanità che ridusse in cenere un patrimonio di talenti senza pari nell’Europa fin
de siècle. Quando cioè l’esito tra
gico della Grande Guerra trasfor
mò la Felix Austria nella Finis Austriae, e l’anno orribile della catastrofe aprì la porta a una duratura nostalgia che Herman Bahr – paladino della modernità e fondatore del giornale «Die Zeit» - riassunse in scarne parole: «All’epoca la vita a Vienna doveva essere davvero interessante».
Nel 1897 Klimt diede impulso a un nuovo gruppo di artisti indipendenti, segnando la nascita della Secessione: era iniziato il «Ver Sacrum» la Sacra Primave
ra, come recitava il titolo della rivista che fu l’organo ufficiale del
movimento. Kolo Moser ne fu ca
poredattore, ma soprattutto mise a disposizione il suo versatile talento di illustratore e grafico, sposando quello stile curvo e vertiginoso che Klimt aveva inaugurato nella pittura.
Di sua mano anche il fregio delle “portatrici di corone” che ancor oggi si ammira sulla facciata del Palazzo della Secessione, inaugurato l’anno successivo. Agli inizi del secolo Vienna era già una metropoli di circa due milioni di abitanti ed epicentro di un movimento virale che in breve contagiò tutta l’Europa reclamandone il risveglio al vento della modernità. La primavera secessionista fu una stagione di lotta al passato e di tenace fede nel nuovo che sembrava spirare da ogni angolo della città, nelle stazioni della metropolitana di Otto Wagner, il maturo architetto che si fece patrocinatore dei giovani rivoluzionari della Secessione, di cui comprese subito l’urgenza di rinnovamento e di rifiuto delle stantie abitudini storicistiche della borghesia cittadina. Moser aderì a questo rinnovamento totalmente e con entusiasmo, collaborando strettamente con Joseph Hoffmann – uno dei più brillanti discepoli di Wagner – e con lo stesso Wagner con cui di lì a poco realizzò l’apparato decorativo di una delle opere più famose: la chiesa di San Leopoldo nella cittadella psichiatrica dello Steinhof di Vienna.
Con Hoffmann, Moser fondò nel 1903 le Wiener Werkstätte ,che provarono a rilanciare la tradizione riformatrice delle inglesi Arts&Crafts alzando l’asticella della scommessa e adeguandola alle mutate esigenze delle nuove classi imprenditoriali del XX secolo.
A Vienna infatti il vento di una modernità spregiudicata e fuori dalle pruderie della borghesia ottocentesca soffiava da ogni angolo: Freud apriva lo sguardo sugli abissi della psiche , consentendo a Klimt o a Schiele di sublimarne il torbido in un’arte sensuale e nevrotica. Schönberg forzava i confini della musica verso la dodecafonia e Mahler scriveva i toni del lato oscuro della musica dietro il versante dorato della bellezza, mentre l’acido corrosivo di Karl Krauss metteva alla berlina i comportamenti falsamente virtuosi. Poco più di un decennio trascorso tra atelier (quello di Klimt tra i primi, luogo di attrazione e di scandalo), studi di architettura (quello di Loos che pure ridicolizzò la mania di bellezza della Secessione), ma soprattutto di bar e caffè (il Central, il Griensteidl, il Café Museum, l’American Bar) dove si incontravano artisti, giornalisti, filosofi, architetti, come Peter Altenberg, Joseph Hoffmann e, appunto, Koloman Moser.
Oggi forse Moser avrebbe potuto scrivere sulla sua carta intestata la dicitura «graphic designer, product designer, architetto di interni, curatore di rassegne». Tappezzeria, libri, carta da lettere, mobili, vetrate, manifesti, loghi e persino francobolli: ideò di tutto. E naturalmente fu anche pittore, il mestiere da cui era partito giovanissimo e nel quale si rifugiò nella terza fase della sua vita, quando nel 1907 lasciò le Wiener Werkstätte per insofferenza verso la sua elitaria committenza.
La mostra al MAK ricostruisce con metodica puntualità in cinque capitoli la storia di Kolo Moser e della scena viennese, partendo dagli anni frenetici dell’ultimo quarto dell’Ottocento in cui Klimt e Wagner si installano al centro del palcoscenico a tirare le fila dell’arte dell’architettura, soffermandosi sull’ideale della unità delle arti che prese consistenza nelle aspirazioni della Secessione e soffermandosi poi sul quel più gelido ritrarsi delle sinuosità klimtiane in forme asciutte e geometriche dietro le quali si sentiva l’esortazione di Otto Wagner allo “stile utile”, che di lì a poco si sarebbe chiamato funzionalismo.
Lo stesso Moser che dello spirito secessionista era stato la più brillante inclinazione, declinandolo nella più vasta gamma di prodotti – dalla grafica di riviste e manifesti al disegno di mobili, accessori per la casa, prodotti di design, vetrate artistiche, eccetera - ne risentì il richiamo: le sue forme, che inizialmente erano floreali e sinuose, col tempo assunsero sempre più il carattere geometrico-ornamentale di un design dall’estetica raffinata. Fu così che egli influenzò in modo decisivo lo stile dei prodotti del circolo Wiener Werkstätte, che aveva fondato insieme ad altri artisti nel 1903. Nel 1906,a una mostra su La tavola
apparecchiata arrivò a disegnare anche alcune forme di pane e di paste, meritandosi la critica di chi osservò: «bisogna dire che qui la pazzia va a nozze con la geometria».
Ma, al solito, fu Herman Bahr a cogliere con sintetica intelligenza la sua singolarità: «Per il viennese è stato Kolo Moser l’uomo dei quadrati» scrisse e «i più credono che abbia inventato la scacchiera».
Moser, come Olbrich ed Hoffmann , credeva nel potere salvifico dell’arte. Confidando nella bellezza per salvare il mondo dalla banalità e della volgarità, credette di poterla espandere in ogni avamposto della creatività umana, seguendo il credo delle avanguardie. E quando si accorse che dietro la bellezza si nascondeva la tirannia del gusto e del mercato si ritrasse nel chiuso del suo studio di pittore. La bellezza si ritirava nei confini della tela, nel corpo a corpo con l’individualità del suo creatore. Il mondo era crollato attorno a lui e lui stesso si arrese il 18 ottobre del 1918 a un nemico interno insensibile all’arte: il cancro.
KOLOMAN MOSER. UNIVERSAL ARTIST BETWEEN GUSTAV KLIMT AND JOSEF HOFFMANN
Vienna, MAK
fino al 22 aprile
Confidava nella bellezza per salvare il mondo dalla banalità e dalla volgarità