Che impegno, Cenerentola!
Milano. Alla Scala l’opera di Rossini, riscoperta da Abbado, è ottimamente guidata da Dantone. Marianne Crebassa perfetta nel ruolo, come Mironov, vero principe
Correva l’anno 1973, molti di noi già andavano a teatro, beati loro, e avevano la fortuna di assistere a quello che sarebbe diventato uno degli spettacoli cardine della Scala post-sessantottina: La
Cenerentola, riscoperta da Claudio Abbado e con regia, scene e costumi di Jean-Pierre Ponnelle. Realistica, più politica che fiaba, nell’attuale ripresa esce ancora intatta. Perché Ottavio Dantone è un musicista che fa affiorare le parole persino dalla musica strumentale (figuriamoci dunque da un libretto tagliente come questo di Jacopo Ferretti) e plasma i cantanti, molto buoni, a partire dalla protagonista Marianne Crebassa, su un gioco di squadra che irretisce. Chiamandoli di continuo a punzecchiarsi tra loro e con una orchestra che suona evviva, finalmente fantastica: leggera e briosa, costruita e scintillante. Può sembrare paradossale che il nostro compositore meno coinvolto, anzi decisamente contrario a qualsiasi interesse nei confronti della vita sociale intorno a sé, ci abbia lasciato nei capolavori buffi pagine tanto vibranti di denuncia. E tanto attuali. Impossibile non sentire uno specchio del presente, nella parodia del potere, tra strafalcioni, latinorum e blaterare sminuzzato con “eloquenza norcina”, al modo appunto dei salumieri di Norcia, quando confezionavano i loro salamini.
Correva l’anno 1973, e nella Milano dove tutto era impegno suonava strano che un direttore di sinistra come Abbado si cimentasse con una partitura così poco rivoluzionaria – in apparenza – come quella del convenzionale Rossini buffo. Priva pure del baluardo di Beaumarchais, nel rivoluzionario
Barbiere. Ecco allora i critici schierati nel cercare l’oggettivismo stravinskiano, nascosto tra le note. Come a dire che solo imbevuta di Novecento quella musica poteva stare in piedi. Ovviamente Abbado aveva concertato tanto Stravinski. Ma il suo Rossini bastava a se stesso. Era diverso, certo, rispetto a uno stile grasso e tondo. Camminava più veloce e nervoso. Facendo scuola per le letture che oggi chiamiamo filologicamente documentate (sul 1817, non sulla Sagra).
A questo orientamento appartiene Ottavio Dantone, che dirige senza bacchetta, vuole un fortepiano in costante riverbero sull’orchestra (sgranato, arpeggiato, ottimo Paolo Spadaro) e che dalla Sinfonia mette le carte in chiaro: idee tematiche cesellate con carattere, una ad una; i crescendo tanto caratteristici costruiti per accumulo di materiale strumentale (come farebbe un clavicembalista, e qui il dna di Dantone esce scoperto) e non sfogando banalmente i volumi; e i minuscoli dettagli – quelli sì, astratti, ma in sapore di Settecento, non di Novecento – restano piccole pennellate. Tipo cervello folle, come rimbalzerà di continuo nelle parole dei concertati di Cenerentola. O follia organizzata, come avrebbe detto poi Stendhal.
Guidati da un gesto non direttoriale puro, ma che funziona perfetto nell’assieme buca e palcoscenico (il suggeritore per un po’ sta a riposo) i sette cantanti cantano a meraviglia, ancor più fanno teatro. È questo l’aspetto vincente della nuovaantica Cenerentola scaligera. Chi è venuto per sentire la singola nota magari va in crisi (perché non la sente come nel disco) chi chiede teatro esce in crescendo di felicità. Ed è la maggioranza del pubblico, in una sala piena, dove non a caso gli applausi si guadagnano spazio man mano. All’inizio non ce ne sono (riposo anche per la claque) nemmeno sulle “strette”, col Coro di Bruno Casoni, come sempre numeroso, di timbro ricco, a volte nella velocità un po’ a rischio. Ma poi scoppiano naturali, come le risate, e alla fine si corre alla balaustra di platea, e i più restano nei palchi, a festeggiare con tante chiamate i protagonisti. Lei è Marianne Crebassa: physique-du-rôle ideale, Cenerentola pura. Da come tiene il capo, mentre macina mesta il caffè al focolare a come si erge in aristocratica bellezza nell’abito nero della festa. Stupendo, tra l’altro. Come disegnava, Ponnelle… Voce meglio nel grave, acuti del Rondò finale striduli. Da film anche Maxim Mironov, biondo e boccoli, quel tanto di nasale e fino nel timbro, a fare principesco-milanese. Nicola Alaimo, Dandini, è il numero uno della compagnia, perfetto buffo, gradasso, con sillabati saporiti, luce nelle note, malinconia. Gran voce Carlos Chausson, Don Magnifico più prevedibile, con effluvio di gag, tra le rampolle Tsisana Giorgadze e Anna-Doris Capitelli, dell’Accademia. Bene Erwin Schrott, Alidoro, ma non sa ancora l’italiano.
Correva l’anno 1973, e nuovo sovrintendente era Paolo Grassi: i biglietti di platea costavano 12 e 10mila lire (90 euro oggi) e in loggione si entrava col corrispettivo di 4 euro e cinquanta. Nessuno avrebbe immaginato una Scala con prezzi triplicati. O un sovrintendente che canta e dirige, sporto dal palco di proscenio, distraendo pubblico e direttore. Claudio Abbado, cui la serata era dedicata, lo avrebbe tollerato?