Com’è autobiografico il giardino
Se è vero che il giardino è da sempre considerato il luogo dell’anima, è la ricerca dell’anima del mondo che da sempre ha spinto i giardinieri a curiosare nei giardini di luoghi lontani. Ma quanta verità c’è nell’imitare un modello altrui?
È la domanda attorno a cui ruotano le giornate internazionali di studio sul paesaggio, progettate dal Comitato scientifico della Fondazione Benetton, in programma per giovedì 21 e venerdì 22 febbraio a Treviso.
Sedici relatori provenienti da Italia, Europa e Stati Uniti sono chiamati a indagare il tema del «giardino storico» da una prospettiva inedita e originale, quella offerta dalle letture, restituzioni, interpretazioni critiche dei modelli storici nel paesaggio del XX e del XXI secolo. Dal giardino italiano del Novecento ai giardini americani del XX secolo, dai paesaggi coloniali dei Caraibi irlandesi ai parchi inglesi, dai giardini vesuviani a quelli “invisibili di Michael van Gessel in Olanda: un viaggio virtuale nei spazi aperti per scoprire come i paesaggisti hanno interpretato il proprio tempo disegnando col verde.
Secondo Sydney Eddison «i giardini sono una forma di autobiografia». Ma sono anche dei libri di storia attraverso cui è possibile ripercorrere le epoche e le loro filosofie.
Uno dei focus più interessanti del convegno è dedicato ai giardini tradizionali cinesi.
Fin dal 1300, i viaggiatori che tornavano dalla Cina raccontavano di giardini maestosi in cui gli elementi della natura si fondevano tra loro in modo armonico. Le filosofie taoiste e buddiste suggerivano un rapporto di commistione e dialogo tra l’uomo e la natura, una convivenza pacifica degli esseri umani nel loro ambiente naturale. Intanto, dall’altra parte del mondo il Rinascimento imponeva il dominio dell’uomo sul paesaggio, plasmato come materia inanimata, scolpito e disegnato secondo canoni basati su forti geometrie al solo scopo di certificare la potenza dell’essere umano sull’ambiente circostante.
Il “modello cinese” è stato per secoli imitato ed esportato e rappresenta ancora oggi un esempio di ricerca del contatto con la natura, con i suoi padiglioni dai tetti ricurvi, i suoi ponti della luna, le sue rocce e la sua acqua. Tutti elementi che nel Ventesimo secolo sono stati replicati in giro per il mondo, dal Metropolitan Museum of Art di New York, dove nel 1981 viene realizzata l’evocazione di un giardino cinese, al Garden of the Reclaimed Moon, costruito a Berlino nel 2000.
«Se all’estero - spiega Bianca Maria Rinaldi, professore associato in Architettura del paesaggio al Politecnico di Torino - i nuovi “giardini alla cinese” hanno assunto una forma di neo-storicismo come filosofia progettuale, giocata sia su citazioni esplicite dei giardini classici sia sull’idea di giardino cinese radicata nell’immaginario occidentale e soffusa di esotismo, in Cina il giardino della tradizione è stato riletto con un linguaggio moderno che sta caratterizzando un nuovo modello di spazio pubblico».
A contribuire all’approccio nostalgico dei giardini cinesi fuori dalla Cina ci sono anche le comunità di immigrati cinesi, che hanno visto in questi spazi verdi un modo per affermare la loro identità culturale». Al contrario, nei nuovi giardini in Cina non c’è alcuna malinconia, piuttosto una voglia di rileggere la storia e trovare una nuova forma per parlare dell’identità locale attraverso parchi e aree verdi, con un’attenzione particolare anche alla sostenibilità.
«Questo principio - sottolinea Rinaldi - non è estraneo alla tradizione, perché la basi del giardino cinese tradizionale sono le stesse che ispirano l’attuale concezione di un ambiente sostenibile. Il giardino cinese è un microcosmo ecologico che mette il visitatore in una metafora ambientale. È uno spazio di equilibrio dove le persone riconoscono di essere parte integrante della natura».