GLI ACCORDI NON SONO PROCEDURE CONCORSUALI
La Cassazione ha recentemente affermato che gli accordi di ristrutturazione vanno considerati come una vera e propria «procedura concorsuale» (sentenze 1182/2018 e 9087/2018).
La Suprema corte ha però anche definito in modo innovativo la nozione di procedura concorsuale, fissandone i requisiti essenziali: esistenza di un’ interlocuzione con l’autorità giudiziaria, con finalità quantomeno “protettive” (nella fase iniziale) e di controllo (nella fase conclusiva);
coinvolgimento formale di tutti i creditori quantomeno a livello informativo;
una qualche forma di pubblicità.
L’assimilazione dell’accordo di ristrutturazione ad una procedura concorsuale deriverebbe inoltre da una sostanziale parificazione del predetto accordo al concordato preventivo, quasi in un rapporto di interscambiabilità e/o fungibilità legittimata dalla legge.
Sul punto occorre però rilevare che mentre il concordato preventivo è più volte definito dalla legge fallimentare come procedura (aricoli 161, 163, 181 ), l’articolo 182 quater sempre della legge fallimentare utilizza il termine “procedura” solo con riferimento al concordato preventivo e non all’accordo.
La nuova elaborazione della Cassazione ha inoltre quasi totalmente superato i tre requisiti (universalità oggettiva, universalità soggettiva e rispetto della par condicio creditorum) su cui lsi basava la tradizionale nozione di “procedura concorsuale”. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che, negli accordi di ristrutturazione, il criterio della universalità oggettiva è ampiamente derogabile, potendo il debitore non utilizzare integralmente il proprio patrimonio per soddisfare i creditori. Quanto, poi, alla par condicio, non vi è alcuna norma che ne imponga l’obbligo. Il punto è che gli accordi di ristrutturazione hanno diversa natura non solo rispetto alle procedure concorsuali previste dalla legge fallimentare, ma anche rispetto a quelle ad essa estranee, come l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Tutte queste procedure, infatti, contemplano il primato del controllo dell’autorità (giudiziaria e/o amministrativa) e non possono che fondarsi sul principio della parità di trattamento dei creditori. È la struttura stessa di tali procedimenti, organizzati per fasi connesse e consequenziali, a pretendere l’applicazione necessaria del principio della par condicio.
Queste procedure, infatti, si sviluppano lungo un percorso standardizzato, nel quale la soddisfazione di “tutti” i creditori con “tutto” il patrimonio dell’imprenditore si realizza attraverso scansioni rigidamente disciplinate. Negli accordi di ristrutturazione, invece, l’autorità giudiziaria si limita a verificare la legittimità dei singoli atti negoziali, il raggiungimento delle maggioranze e a certificare l’esistenza delle risorse patrimoniali atte a soddisfare integralmente i soli creditori “estranei”. I singoli accordi conclusi dal debitore sono rimessi alla mera volontà e agli interessi delle parti.
La discrezionalità assoluta concessa all’imprenditore sembra quindi negare in radice agli accordi di ristrutturazione la qualifica di procedura “concorsuale”, ovvero di procedura che regolamenta l’equa e proporzionale ripartizione del patrimonio. Sembra, dunque, più appropriato continuare a definire l’accordo di ristrutturazione come un mero strumento negoziale di composizione della crisi, piuttosto che onerarlo della ben più impegnativa e complessa qualifica di procedura concorsuale.
* Docente di Diritto commerciale all’Università di Foggia e componente del comitato tecnico-scientifico dell’Istituto per il governo societario (Igs)