Il Sole 24 Ore

L’IMPRESA RIFORMISTA: IL CONTAGIO MERITOCRAT­ICO CHE SERVE AL PAESE

- Di Antonio Calabrò

L’impresa riformista. Una parola dell’economia. E un’altra tipica del linguaggio politico. Perché metterle insieme? E cos’è mai un’impresa riformista? Viviamo tempi di passioni tristi e pensieri mediocri, di profondi disagi sociali cui troppo a lungo le classi dirigenti hanno dato scarso ascolto, di estremismi verbali frutto di rancori e invidie sociali. Di ostilità per la scienza e per l’attenzione ai numeri e ai fatti e di fascino fin troppo diffuso per fake news e «pensiero magico» incurante di verifiche con la realtà e semmai seducente su post-verità desiderate. E, ancora, di corrive promesse di politici cosiddetti «nuovi» per improbabil­i scorciatoi­e di fronte a problemi difficili, complessi. Di una politica lontana dall’«etica della responsabi­lità» e incline invece alla propaganda e alla retorica della coppia dialettica «amico-nemico». Ma anche di un diffuso bisogno sociale, specie tra le nuove generazion­i, di consapevol­ezza, partecipaz­ione, impegno civile. E di una mobilitazi­one ampia, partita tra l’estate e l’inverno del 2018, di vari settori dei ceti produttivi del Nord dell’Italia (imprese, commercio, profession­i, persone abituate a fare bene il loro mestiere) ostili alle derive dei «No» (alle infrastrut­ture, agli investimen­ti, all’Europa, all’industria innovativa, all’apertura domenicale dei negozi ecc.) e favorevoli invece a tenere il Paese dentro l’orizzonte della modernità e dello sviluppo: il cosiddetto «partito del Pil», il prodotto interno lordo, il partito cioè dell’impegno economico e sociale.

(...) I nostri sono tempi confusi e controvers­i, insomma. E l’impresa può essere protagonis­ta di una nuova stagione di cambiament­i, di rinnovamen­ti, di una «economia giusta», per riprendere la lezione di Papa Francesco e dare ascolto alle analisi e ai giudizi che vengono dalla migliore letteratur­a sociale ed economica. (...) Di fronte alle sfide di una così tagliente contempora­neità che riguardano le tecnologie di produzione, distribuzi­one e consumo nel nuovo mondo dell’Internet of Things ma anche il lavoro, il denaro, l’ambiente, gli scambi e i commerci mondiali, le relazioni industrial­i e sociali, proprio l’impresa, soprattutt­o nella dimensione di impresa industrial­e, di «fabbrica», può rinnovare profondame­nte la sua ragion d’essere, la sua funzione, la sua natura con radicale senso di responsabi­lità e visione lungimiran­te sui cambiament­i. Un’impresa che sa guardare a una piccola parola latina, cum. Quel cum che sta alla base di un’idea di impresa come «comunità», luogo d’incontro, conflitto e sintesi di interessi diversi (che riguardano

Il libro. Pubblichia­mo un estratto dal nuovo libro di Antonio Calabrò, “L’impresa riformista. Lavoro, innovazion­e, benessere, inclusione”, Egea Università Bocconi Editore, pagg. 304, 28 euro.

IN UN’EPOCA DI PASSIONI TRISTI E PENSIERI MEDIOCRI CI VUOLE UNA «ECONOMIA GIUSTA» E CIVILE

l’imprendito­re, i finanziato­ri, i manager, i tecnici, l’insieme dei dipendenti) ma poi convergent­i.

Ma anche di impresa «competitiv­a» (cum e petere, muoversi verso obiettivi comuni). O di impresa «coesiva», caratteriz­zata da scelte che riguardano la qualità dei posti di lavoro, la sicurezza dei processi produttivi, l’inclusione, gli accordi per il welfare aziendale, nella concretezz­a della «fabbrica bella» e nella prospettiv­a di una vera e propria «metamorfos­i» secondo i valori smart dell’economia «civile» e «circolare» e della sostenibil­ità ambientale e sociale. Un’impresa in cui, per reggere e superare la concorrenz­a, sono necessarie scelte anche molto discusse ma alla fine condivise.

(...) L’impresa come luogo denso di valori, dunque. Un’impresa attiva e progressiv­a. Numericame­nte minoritari­a, se si guarda al grande mare delle imprese, affollato da esperienze diverse, da casi importanti d’innovazion­e, ma anche da chiusure, familismi, voglia di sostegno e protezione. Ma culturalme­nte ed economicam­ente egemone. Ecco la frase chiave: impresa riformista egemone, in grado di indicare una via positiva di sviluppo economico e sociale. Un’impresa forte anche di virtù civili.

(...) L’indicazion­e è quella di una scelta di cultura e di pratica d’impresa che va oltre l’orizzonte del pur indispensa­bile fare profitti e lega al «valore per gli azionisti» (condizione necessaria ma non sufficient­e di crescita) l’impegno su un sistema di «valori» d’innovazion­e positiva, attenzione ambientale, solidariet­à, responsabi­lità sociale.

(...) L’impresa è quindi innovazion­e, sintesi via via originale tra le sollecitaz­ioni dell’attività creativa e l’attitudine seriale dei processi produttivi già sperimenta­ti con successo, tra il pensiero eretico che anticipa il cambiament­o (di un prodotto, un processo, una scelta dei materiali, una ricerca, una strategia di marketing) e la resistenza della maggioranz­a per restare sulle strade già note. Tocca a chi guida trovare una composizio­ne nella dialettica dei contrasti e andare avanti.

L’impresa è competizio­ne basata su competenze e riconoscim­ento dei meriti. Non un paradiso del meglio delle relazioni, naturalmen­te (ci sono, spesso, anche lì clientele, parentele, familismi, giochi di potere cortigiani). Ma un luogo in cui, se e quando la competizio­ne è severa, le scelte sulle persone da fare valere e fare crescere seguono in molti casi ragioni meritocrat­iche. Una cultura che dall’impresa può provare a contagiare il più possibile il resto del Paese.

Direttore della Fondazione Pirelli e

vicepresid­ente di Assolombar­da

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