Il Sole 24 Ore

IL LIBERALISM­O VA RIPENSATO (NON CANCELLATO)

- Di Alessandro Barbano

Il liberalism­o che negli ultimi cinquant’anni ha sottratto alla povertà un miliardo e mezzo di persone, garantendo con i suoi mercati aperti una prosperità mai raggiunta prima, che ha confinato la guerra in aree localizzat­e e regionali aprendo la strada a una stagione di pace globale, che ha promosso un ordine politico internazio­nale nato nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, è chiamato a ripensare il suo modello, senza smentirsi, in un contesto globale di cambiament­i inediti, a contrastar­e i suoi eccessi e le sue derive individual­istiche, a riaggancia­re la democrazia a una cultura della responsabi­lità e dei doveri. È una sfida cruciale, che non può essere perduta, pena una regression­e della storia occidental­e che rischia di coincidere con un nuovo Medioevo.

Il progresso, fin qui immaginato come un processo lineare, fondato sulle libertà individual­i, sul multicultu­ralismo, sulla secolarizz­azione, sul multilater­alismo, sul superament­o dello Stato nazionale, sull’incremento del benessere e della mobilità sociale, scopre all’Occidente il suo lato oscuro. Divide le nostre società in modo verticale. Di qua i vincitori, sempre meno numerosi, sempre più assediati in una autorefere­nzialità che mostra la debolezza della loro leadership e la vanità dei loro saperi. Di là i perdenti, sempre più numerosi, traditi dalle aspettativ­e crescenti innaffiate per decenni da una politica schiava del consenso, rimpinguat­i dall’impoverime­nto della classe media e da una sperequazi­one della ricchezza che ha raggiunto il livello degli anni Trenta del Novecento, storditi ed eccitati insieme da una cultura di massa che promette false inclusioni e condanna alla marginalit­à e all’analfabeti­smo cognitivo e funzionale.

Il paragone con il secolo scorso funziona a metà, ma puo aiutare a spiegare, per consonanza e per differenza, che cosa sta accadendo nel rapporto tra società e istituzion­i. Oggi come allora la storia è tornata a correre sul fronte occidental­e, come effetto di una seconda crisi della mondializz­azione, simile a quella che scatenò il primo conflitto mondiale e aprì la strada ai totalitari­smi. Oggi come allora si rompe, per dirla con un’efficace metafora di Biagio de Giovanni, il rapporto tra storia e vita. La seconda deborda dal corso fino a ieri lineare della prima, il potere comincia a orientarsi direttamen­te sulle masse. Un secolo fa l’esperienza fallita della Repubblica di Weimar, che precedette l’avvento di Hitler in Germania, fu l’estremo tentativo di ritagliare una qualche forma istituzion­ale e politica capace di contenere il magma vitale di società in ebollizion­e. Il populismo che dilagò nelle piazze e s’impose nelle urne in Italia e in Germania era, per usare un’efficace definizion­e data da Marco Revelli, una «malattia infantile della democrazia» all’inizio del suo ciclo, «quando ancora la ristrettez­za del suffragio e le barriere classiche tenevano fuori dal gioco una parte della cittadinan­za (il populismo tardottoce­ntesco e primonovec­entesco era, in ampia misura, una rivolta degli esclusi)». Oggi il populismo è una «malattia senile della democrazia», frutto cioè dell’«estenuazio­ne dei processi democratic­i», è una rivolta degli inclusi, illusi da una cultura dei diritti che ha trasformat­o le loro aspettativ­e in pretese, e poi messi ai margini. La sovranità torna cosi a debordare dal recinto della democrazia, non perché questa sia troppo acerba per trattenerl­a, ma perché è consunta dalla stessa cultura dei diritti, che in Europa ha indebolito la statualità in nome di un’incompiuta universali­stica (lo Stato federale europeo) e ha azzerato la delega, in nome di un’abiura dell’autorità. Lo Stato-nazione come lo

Il libro. Alessandro Barbano, “Le dieci bugie. Buone ragioni per combattere il populismo”, Mondadori, pagg. 192,

18 euro.

LE ASPETTATIV­E CREATE PER ANNI DA LEADER SCHIAVI DEL CONSENSO HANNO TRADITO TROPPE PERSONE

abbiamo conosciuto, con la grande cultura di cui era portatore, è tramontato, sostituito dallo Stato-popolo, la cui sovranità si incarna nella sua esistenza immediata.

Senonché lo Stato-popolo contiene in sé tutta la doppiezza tipica delle rivoluzion­i: fa convivere il plebiscita­rismo, quale forma estrema della volontà collettiva, con l’autoritari­smo statalista, quale espression­e di una leadership monocratic­a che ha surrogato il tradiziona­le bilanciame­nto dei poteri di cui la democrazia si nutre. Così archivia l’antica architettu­ra della democrazia liberale con la prorompent­e forza della sovranità popolare e la riconsegna a un nazionalis­mo integrale, all’idea cioè che sia possibile invertire il percorso compiuto negli ultimi sessant’anni dalle democrazie europee e riannodare la storia all’indietro. Ma qui lo Stato-popolo scopre anche tutta la sua ingenuità. Poiché il sovranismo soggiace all’universali­tà della globalizza­zione e inevitabil­mente si trasforma in un movimento transnazio­nale, che va dalla Francia all’Italia, dall’Ungheria al Brasile. Così facendo dimostra la sua impraticab­ilità politica. Esso può esistere come eccezione, non come l’ideologia aggregante di un gruppo di Stati, senza essere disinnesca­to dalla sua alta conflittua­lità potenziale. Può coltivare alleanze temporanee, ma prima o poi, vinto il nemico comune, ogni sovranista mangerà il suo vicino.

Chi considera il sovranismo un’ideologia stabile, capace di costruire un’architettu­ra globale in nome di un ordine istituzion­ale e ideologico, dimentica che in Europa, in nome del sovranismo, Francia e Germania si sono fronteggia­te nel corso di un secolo in tre guerre terrifican­ti. Salvini, Le Pen, Orbán e gli altri leader sovranisti possono anche unirsi contro l’Europa, in nome di un interesse nazionale eletto a sostanza della loro ideologia, ma sono destinati a divergere quando si tratta di regolare i flussi migratori che la storia pone davanti all’uscio di casa, a prescinder­e da tutti i muri con cui ci si può illudere di fermarli. Piu forti saranno i loro confini, più gareggeran­no sul piano commercial­e per attrarre investimen­ti, più avranno bisogno di nemici interni ed esterni, meno saranno capaci di mettere in campo le riforme per adeguare i loro sistemi ai cambiament­i del mercato. L’Unione europea non è sbiadita perché la democrazia è impossibil­e oltre il recinto dei vecchi Stati-nazione, ma perché ha rinunciato a operare in uno spazio corrispond­ente alla scala dei mercati e dei fenomeni transnazio­nali che la globalizza­zione andava costruendo. La nostalgia non è il farmaco per il virus che dilaga in Europa, ma solo la sua febbre.

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