IL LIBERALISMO VA RIPENSATO (NON CANCELLATO)
Il liberalismo che negli ultimi cinquant’anni ha sottratto alla povertà un miliardo e mezzo di persone, garantendo con i suoi mercati aperti una prosperità mai raggiunta prima, che ha confinato la guerra in aree localizzate e regionali aprendo la strada a una stagione di pace globale, che ha promosso un ordine politico internazionale nato nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, è chiamato a ripensare il suo modello, senza smentirsi, in un contesto globale di cambiamenti inediti, a contrastare i suoi eccessi e le sue derive individualistiche, a riagganciare la democrazia a una cultura della responsabilità e dei doveri. È una sfida cruciale, che non può essere perduta, pena una regressione della storia occidentale che rischia di coincidere con un nuovo Medioevo.
Il progresso, fin qui immaginato come un processo lineare, fondato sulle libertà individuali, sul multiculturalismo, sulla secolarizzazione, sul multilateralismo, sul superamento dello Stato nazionale, sull’incremento del benessere e della mobilità sociale, scopre all’Occidente il suo lato oscuro. Divide le nostre società in modo verticale. Di qua i vincitori, sempre meno numerosi, sempre più assediati in una autoreferenzialità che mostra la debolezza della loro leadership e la vanità dei loro saperi. Di là i perdenti, sempre più numerosi, traditi dalle aspettative crescenti innaffiate per decenni da una politica schiava del consenso, rimpinguati dall’impoverimento della classe media e da una sperequazione della ricchezza che ha raggiunto il livello degli anni Trenta del Novecento, storditi ed eccitati insieme da una cultura di massa che promette false inclusioni e condanna alla marginalità e all’analfabetismo cognitivo e funzionale.
Il paragone con il secolo scorso funziona a metà, ma puo aiutare a spiegare, per consonanza e per differenza, che cosa sta accadendo nel rapporto tra società e istituzioni. Oggi come allora la storia è tornata a correre sul fronte occidentale, come effetto di una seconda crisi della mondializzazione, simile a quella che scatenò il primo conflitto mondiale e aprì la strada ai totalitarismi. Oggi come allora si rompe, per dirla con un’efficace metafora di Biagio de Giovanni, il rapporto tra storia e vita. La seconda deborda dal corso fino a ieri lineare della prima, il potere comincia a orientarsi direttamente sulle masse. Un secolo fa l’esperienza fallita della Repubblica di Weimar, che precedette l’avvento di Hitler in Germania, fu l’estremo tentativo di ritagliare una qualche forma istituzionale e politica capace di contenere il magma vitale di società in ebollizione. Il populismo che dilagò nelle piazze e s’impose nelle urne in Italia e in Germania era, per usare un’efficace definizione data da Marco Revelli, una «malattia infantile della democrazia» all’inizio del suo ciclo, «quando ancora la ristrettezza del suffragio e le barriere classiche tenevano fuori dal gioco una parte della cittadinanza (il populismo tardottocentesco e primonovecentesco era, in ampia misura, una rivolta degli esclusi)». Oggi il populismo è una «malattia senile della democrazia», frutto cioè dell’«estenuazione dei processi democratici», è una rivolta degli inclusi, illusi da una cultura dei diritti che ha trasformato le loro aspettative in pretese, e poi messi ai margini. La sovranità torna cosi a debordare dal recinto della democrazia, non perché questa sia troppo acerba per trattenerla, ma perché è consunta dalla stessa cultura dei diritti, che in Europa ha indebolito la statualità in nome di un’incompiuta universalistica (lo Stato federale europeo) e ha azzerato la delega, in nome di un’abiura dell’autorità. Lo Stato-nazione come lo
Il libro. Alessandro Barbano, “Le dieci bugie. Buone ragioni per combattere il populismo”, Mondadori, pagg. 192,
18 euro.
LE ASPETTATIVE CREATE PER ANNI DA LEADER SCHIAVI DEL CONSENSO HANNO TRADITO TROPPE PERSONE
abbiamo conosciuto, con la grande cultura di cui era portatore, è tramontato, sostituito dallo Stato-popolo, la cui sovranità si incarna nella sua esistenza immediata.
Senonché lo Stato-popolo contiene in sé tutta la doppiezza tipica delle rivoluzioni: fa convivere il plebiscitarismo, quale forma estrema della volontà collettiva, con l’autoritarismo statalista, quale espressione di una leadership monocratica che ha surrogato il tradizionale bilanciamento dei poteri di cui la democrazia si nutre. Così archivia l’antica architettura della democrazia liberale con la prorompente forza della sovranità popolare e la riconsegna a un nazionalismo integrale, all’idea cioè che sia possibile invertire il percorso compiuto negli ultimi sessant’anni dalle democrazie europee e riannodare la storia all’indietro. Ma qui lo Stato-popolo scopre anche tutta la sua ingenuità. Poiché il sovranismo soggiace all’universalità della globalizzazione e inevitabilmente si trasforma in un movimento transnazionale, che va dalla Francia all’Italia, dall’Ungheria al Brasile. Così facendo dimostra la sua impraticabilità politica. Esso può esistere come eccezione, non come l’ideologia aggregante di un gruppo di Stati, senza essere disinnescato dalla sua alta conflittualità potenziale. Può coltivare alleanze temporanee, ma prima o poi, vinto il nemico comune, ogni sovranista mangerà il suo vicino.
Chi considera il sovranismo un’ideologia stabile, capace di costruire un’architettura globale in nome di un ordine istituzionale e ideologico, dimentica che in Europa, in nome del sovranismo, Francia e Germania si sono fronteggiate nel corso di un secolo in tre guerre terrificanti. Salvini, Le Pen, Orbán e gli altri leader sovranisti possono anche unirsi contro l’Europa, in nome di un interesse nazionale eletto a sostanza della loro ideologia, ma sono destinati a divergere quando si tratta di regolare i flussi migratori che la storia pone davanti all’uscio di casa, a prescindere da tutti i muri con cui ci si può illudere di fermarli. Piu forti saranno i loro confini, più gareggeranno sul piano commerciale per attrarre investimenti, più avranno bisogno di nemici interni ed esterni, meno saranno capaci di mettere in campo le riforme per adeguare i loro sistemi ai cambiamenti del mercato. L’Unione europea non è sbiadita perché la democrazia è impossibile oltre il recinto dei vecchi Stati-nazione, ma perché ha rinunciato a operare in uno spazio corrispondente alla scala dei mercati e dei fenomeni transnazionali che la globalizzazione andava costruendo. La nostalgia non è il farmaco per il virus che dilaga in Europa, ma solo la sua febbre.