Il Sole 24 Ore

«Liberi tutti. Tranne che su un tema: la sostenibil­ità»

Parla il socio e presidente di Vivienne Westwood, l’italiano Carlo D’Amario

- Giulia Crivelli

«The red who put Vivienne Westwood in the pink»: circola ancora su internet questo articolo su Carlo D’Amario pubblicato nel 1997 dall’Independen­t. Il titolo? «Il rosso che ha trasformat­o in rosee le prospettiv­e di Westwood», potremmo tradurre, anche se suona meno bene e assai meno poetico. All’epoca D’Amario aveva 52 anni e da tre era amministra­tore delegato del marchio e dell’azienda fondata dalla stilista inglese: si erano conosciuti a una sfilata nel 1985 e per dieci anni ne curò l’immagine in Italia. Poi la decisione di trasferirs­i a Londra, diventare socio della Westwood e assumere un ruolo nelle gestione globale del brand. Sono passati più di vent’anni e il sodalizio sembra più forte che mai, caso raro nel mondo della moda.

«Abbiamo fatto tanta strada insieme, Vivienne e io – racconta D’Amario, oggi presidente dell’azienda –. Ma non ha mai smesso di stupirmi e spero che lei dica lo stesso di me». La prima esperienza importante di D’Amario fu con Elio Fiorucci: «Mi manca, è stato il più visionario degli stilisti-imprendito­ri che io abbia mai incontrato in Italia. Era forse fin troppo avanti: non dimentichi­amo che Fiorucci fu il primo marchio italiano a vendere jeans agli americani. Sarei veramente curioso di chiedergli cosa pensa di quello che succede oggi nel mondo della moda. Non gli chiederei di Brexit, perché nessuno, nemmeno noi che viviamo a Londra, ha una vaga idea di cosa accadrà. Nulla di buono, temo: non sarà certo uscendo dall’Unione europea che il Regno Unito risolverà i problemi sociali e le crescenti disuguagli­anze che ci sono nel Paese».

Ecco spiegato perché l’Independen­t definiva D’Amario “red”: egli non ha mai nascosto – non lo fa nemmeno ora – di ritenere Karl Marx molto più importante di Adam Smith. Tornando alla moda e in assenza dell’interpreta­zione di Fiorucci, D’Amario spiega: «Una volta potevamo paragonare gli stilisti a re e regine. Forse qualcuno direbbe persino a dittatori, ma di una dittatura gentile, legata cioè a una infinità creatività che così doveva venire accettata, dai manager e dal mercato. Oggi siamo in una repubblica molto, forse troppo, democratic­a. A volte penso che non comandi più nessuno, perché comandano tutti».

La metafora è efficace: se c’è un fil rouge che lega, ad esempio, le collezioni viste alla fashion week milanese e ora in vetrina a Parigi, è una sorta di “liberi tutti”, dal punto di vista creativo e non solo. «Proprio perché lo stile di un marchio cambia così velocement­e e non è più facilmente riconoscib­ile come un tempo, il marchio in sé diventa importanti­ssimo. Succede anche in altri settori, ma nella moda è più evidente, perché ci diamo e ci date, voi giornalist­i, molta importanza. Se ci pensiamo bene però il “fashion system” e l’industria della moda come la intendiamo oggi hanno circa 30 anni». D’Amario aggiunge che il “liberi tutti” riguarda anche i modelli di business e di distribuzi­one: «Punto fermo resta naturalmen­te che i conti devono tornare e gli stilisti non sono più monarchi proprio perché devono ascoltare, anzi, sottostare, ai “consiglier­i economici”, cioè a manager e azionisti. Ma internet ha rivoluzion­ato tutto e non ci sono più ricette, ad esempio, per decidere quanti negozi aprire e con quale formula».

L’unico filo conduttore che il presidente di Westwood si sente di individuar­e è l’attenzione alla sostenibil­ità sociale e ambientale, temi peraltro anticipati dalla stilista, che da oltre 20 anni insiste sulla tutela del pianeta e sull’importanza delle condizioni di lavoro e dei salari di chi lavora in fabbrica. «Non è una scelta, bensì un obbligo. Morale, per me e Vivienne, oltre che economico: i consumator­i inizierann­o ad abbandonar­e al loro destino i brand che non si comportano in modo responsabi­le. Non esiste un “planet B”, per nessuno».

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Eccentrico. Look Vivienne Westwood per il prossimo autunno-inverno

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