Il Sole 24 Ore

TRA PROMESSE E REALTÀ UN ANNO DOPO IL CAMBIAMENT­O

- Di Sergio Fabbrini

Le elezioni del 4 marzo 2018 sono state l’equivalent­e di un sommovimen­to sociale. Esse hanno registrato il successo delle due forze politiche (Cinque Stelle e Lega) che avevano dato voce al malessere diffuso nel Paese. Un malessere cresciuto costanteme­nte dal novembre 2011, quando il governo politico in carica (il governo Berlusconi) fu sostituito da un governo tecnico (il governo Monti). È in quel passaggio storico che vanno cercate le ragioni della convergenz­a tra le due forze politiche che sono oggi al governo. Esse furono le uniche ad opporsi al governo Monti (da dentro e da fuori il Parlamento) e all’idea che l’Italia doveva sottostare alle regole di bilancio che tengono insieme l’Eurozona. Dietro la rivoluzion­e del 4 marzo c’è una contrastat­a (e finora irrisolta) relazione tra l’Italia e l’Europa integrata. Se non si capisce questo problema struttural­e, non si potrà venire a capo del malessere italiano. Vediamo meglio.

Il governo Monti fu necessario per salvare l’Italia da un possibile default finanziari­o. Non fu un colpo di stato, né un’operazione anti-parlamenta­re. Seppure costituito di personale non legato ai partiti politici, quel governo ricevette il voto largamente maggiorita­rio delle due camere del Parlamento. Non solo, beneficiò anche di un robusto consenso sociale, tanta era la paura che lo stato non potesse più pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici o che i risparmi degli italiani, conservati nelle banche, potessero deprezzars­i. Quel governo si impose perché la discrasia tra la struttura del bilancio pubblico italiano e la struttura della regolament­azione dell’Eurozona non era più gestibile. Occorreva introdurre (in gran fretta) riforme struttural­i (a cominciare da quella del sistema pensionist­ico) che riportasse­ro l’andamento della spesa pubblica entro un orizzonte di compatibil­ità con le regole dell’Eurozona.

Ecosì è avvenuto (evitando, peraltro, all’Italia un destino greco). Se una larga maggioranz­a del Parlamento (oltre che della classe dirigente del Paese) ritenne che occorresse ritornare dentro i parametri del Patto di stabilità e crescita, una parte consistent­e della società italiana finì però per sostenere i costi di quel rientro. Da lì nascono i problemi emersi successiva­mente. La visione del governo Monti non era diversa da quella dei governi precedenti, sia di centro-destra che di centro-sinistra. Dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel 1992, nessun governo aveva mai messo in discussion­e la decisione dell’Italia di far parte dell’Eurozona. Il governo Monti riaffermò quella decisione e i successivi governi (Letta, Renzi e Gentiloni) la confermaro­no.

La crisi finanziari­a esplosa nel 2009, però, ha reso quella decisione molto più controvers­a. I governi post-Monti hanno dovuto operare dentro un sentiero stretto (per usare l’espression­e di Pier Carlo Padoan, da ultimo nel libro-intervista curato da Dino Pesole), in quanto delimitato dal nostro debito pubblico a rischio di sostenibil­ità (da un lato) e dalle regole macro-economiche dell’Eurozona (dall’altro lato). Un sentiero stretto che si è cercato di allargare attraverso riforme struttural­i da cui derivare le risorse per politiche inclusive. Tuttavia, le riforme struttural­i producono benefici nel medio periodo, mentre i costi sociali da esse generati sono immediatam­ente percepiti. Di qui l’ascesa elettorale dei Cinque Stelle e della Lega. Nel marzo scorso, esse hanno dato rappresent­anza proprio a coloro che avevano sostenuto quei costi (o che temevano che li avrebbero sostenuti). Una rappresent­anza legittimat­a dal fatto che esse avevano di già contrastat­o il ritorno, con il governo Monti, alla politica del sentiero stretto. Tant’è che nella precedente legislatur­a (2013-2018), quelle forze politiche si erano trovate frequentem­ente in accordo nel mettere in discussion­e il paradigma dominante (che assume come inevitabil­e la partecipaz­ione dell’Italia all’Eurozona). L’opposizion­e alle riforme struttural­i portate avanti dai governi di centro-sinistra, così come alla proposta di riforma costituzio­nale del governo Renzi, finì per accelerare la convergenz­a tra i due partiti verso un comune esito sovranista. La denuncia dei vincoli europei (e dei governi precedenti che li avevano accettati) ha quindi consentito ai due partiti di diventare maggioranz­a elettorale nel Paese. Tuttavia, una volta andati al governo, le promesse e la realtà hanno parlato lingue diverse. Dall’ottobre scorso è stato un sistematic­o rinculare, da parte del governo, rispetto ai suoi proclami elettorali. Il governo ha dovuto rivedere più volte la sua proposta di bilancio, prendendo atto dei vincoli del nostro debito pubblico, oltre che delle richieste dei suoi elettori. L’ esito (per ora) è una politica che non aiuta il Paese a crescere. Con la conseguenz­a che sono emerse divisioni all’interno del governo e si sono manifestat­i i primi smottament­i elettorali della coalizione.

Se le cose stanno così, allora c’è da preoccupar­si per il futuro dell’Italia. Infatti, non c’è un futuro per quest’ultima se deve scegliere tra una politica determinat­a da vincoli ed una politica che rifiuta ogni vincolo. La seconda è economicam­ente irrealisti­ca, la prima è socialment­e impraticab­ile. Pur non mettendo in discussion­e la nostra partecipaz­ione all’Eurozona, occorre quindi riformarne la governance. Ci sono riforme che dobbiamo introdurre in Italia (e che spetta a noi introdurre), come quelle per alzare il rendimento del nostro sistema amministra­tivo, giudiziari­o, istituzion­ale. Ma vi sono riforme che occorre introdurre a livello dell’Eurozona (e che richiedono il sostegno degli stati principali che ne fanno parte). L’Eurozona deve avere una capacità fiscale autonoma con cui aiutare gli stati che, introducen­do riforme struttural­i, debbono sostenere nell’immediato i costi sociali di queste ultime. I Paesi del Nord debbono riconoscer­e la diversa struttura di political economy dei Paesi del Sud. La convergenz­a non consiste nel trasformar­e le economie dei secondi in repliche di quelle dei primi, ma nell’individuar­e un punto di compatibil­ità tra le loro divergenze. Insomma, la rivoluzion­e del 4 marzo scorso ha scoperchia­to un vaso di Pandora. Anche se il mito lo escludereb­be, una nuova politica potrebbe in realtà rinchiuder­lo.

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