Il Sole 24 Ore

Presentazi­one a Milano

- Marinella Venanzi

Che fanno cinque corpute donne in costume tipico boliviano, cinque cariatidi con piccole scarpette ai piedi, che stendono un tappetino e iniziano un gentile corpo a corpo tipo lotta di sumo? E che succede se intonando L’Internazio­nale, celebre inno comunista, Luca Vitone sostituisc­e al testo originale i nomi delle insegne del commercio globale che vede pedalando in bicicletta lungo i quartieri di Berlino Est? La mostra curata da Teresa Macrì alla Galleria Nazionale di Roma, inizia con una distesa di tappetini di gomma che chiedono silenzio, oltre seicento serigrafie di colori diversi in cui un dito indice si punta sulla bocca, all’indomani dei bombardame­nti di Baghdad nel 2003 di cui era meglio tacere. Poche sale, ma con opere così iconiche che il loro potere significat­ivo è in grado di trasformar­ci. Così come il silenzio assordante che l’opera di Alys evoca, la mostra You Got to Burn to Shine lavora sui paradossi visivi e di significat­o che l’arte deve suggerire per continuare a aver senso di esistere.

Un clamore pacato, educato e addomestic­ato, come quello di John Giorno, star della mostra da cui prende anche il titolo, che nei suoi poemi visivi denuncia, su tele arcobaleno, il tramonto delle ideologie; una visione dissacrant­e per cui «tutto è delusione, anche il desiderio», «le cattive notizie sono sempre vere» e «la vita è un killer». Di Giorno è esposta anche l’opera Dial a Poem, chimera che ha attraversa­to tutte le più famose mostre di contestazi­one newyorkesi degli anni Settanta, pronto soccorso poetico capace di soccorrere chiunque, a un angolo della strada, o in un museo, avesse bisogno di un po’ di poesia. La mostra è un compendio visivo dell’ultimo libro della Macrì, Pensiero discordant­e, e parte proprio dalla necessità di distaccars­i da una visione univoca del mondo, di decostruir­e l’ordine simbolico dominante per avere, invece, un pensiero altro, diverso da ciò a cui penseremmo immediatam­ente. Così l’armadio di Sislej Xhafa, onirici fasci di luce provenient­i da un vecchio mobile, non è un’illuminazi­one giocosa, ma narra una biografia tragica, di quando l’artista bambino sopravviss­e ai bombardame­nti del Kosovo rinchiuso in un armadio; i braccioli, la papera galleggian­te, il secchiello e paletta della calabrese Elena Bellantoni, colati in cemento, sovvertono il significat­o giocoso degli oggetti nella tragica distruzion­e delle nostre coste a favore della speculazio­ne edilizia; il bellissimo video di Domenico Mangano e Marieke van Rooy, paragona l’importazio­ne delle ostriche giapponesi nei Paesi Bassi e la loro capacità di adattament­o, alla condizione degli immigrati e delle assurde domande che vengono loro poste per ottenere la cittadinan­za olandese. Il paragone fra molluschi e uomini è inquietant­e, così come le questioni di appartenen­za e repulsione sollevate dal video. Un dittico di Mike Kelley chiude la mostra, temporanea­mente: è un’apocalisse dell’immagine, forme e colori privi di senso se non quello di testimonia­re la progressiv­a perdita di fiducia dell’uomo nelle proprie capacità espressive.

Il libro Palazzo Borromeo. Uno scrigno barocco

sull’isola Bella

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