Caro Porro, io ti aborro
Casimiro Porro, fondatore della Finarte, ha raccolto ricordi e interviste dedicati ai protagonisti del mercato e del collezionismo artistico dal 1959 a oggi
«Caro Porro, io ti aborro». Le cartoline e le lettere che Casimiro Porro riceveva, con intestazioni affettuosamente goliardiche come questa, provenivano tutte da un unico, inconfondibile mittente: Federico Zeri.
Casimiro Porro (“Miro” per gli amici) è stato fondatore insieme al suocero Gian Marco Manusardi della prima e principale casa d’aste italiana, la mitica Finarte, che aprì i battenti nel 1959 come società di finanziamento dell’arte e che divenne poi, per quarant’anni, il punto di riferimento per le aste e il collezionismo italiano. Porro è stato presidente di Finarte fino al 2001. Poi, nel 2002, ha fondato e guida tutt’ora la Porro & C., continuando a operare attivamente nel settore.
A conti fatti, sono sessant’anni che Miro Porro è sulla cresta dell’onda, esercitando un lavoro che lui stesso definisce «il più bello del mondo». A questo meraviglioso mestiere il patron di Finarte ha già dedicato alcune riflessioni raccolte da Christian Herchenröder nel libro
Il mercato dell’arte (uscito da Bompiani nel 1980) e da Paolo Vagheggi in Una vita in asta (uscito da Longanesi nel 1999). Adesso però ha voluto tracciare personalmente un ampio bilancio della sua avventura professionale, regalandoci un libro autobiografico dal titolo Per le strade dell’arte. Ricordi e riflessioni di un protagonista tra mercato e istituzioni, che è ricco di fatti, personaggi, aneddoti e testimonianze dirette. In sintesi, un libro in grado di offrire un brillante quadro della storia del mercato dell’arte, del collezionismo e del rapporto tra mercato e istituzioni, nell’Italia nell’ultimo sessantennio.
Non si tratta, però, di un tradizionale memoriale, perché Porro ha chiamato attorno a sé un gruppo di amici fidati per condividere i passaggi salienti della sua professione. In questa chiave va letto il contributo d’apertura di Gianpietro Borghini, sindaco di Milano nei drammatici anni di Tangentopoli, che grazie
alla stretta intesa con Porro riuscì ad
assicurare alle collezioni pubbliche milanesi i capolavori della collezione Jucker. E nella stessa chiave van
no lette le interviste che chiudono il
volume, fatte a quattro grandi grandi amici-collezionisti quali Mario Scaglia, Guido Rossi (purtroppo mancato nel frattempo), Giuseppe Iannaccone e Francesco Micheli (che con Porro ha gestito a lungo il governo diretto di Finarte).
Come si evince dall’incipit del libro, Porro e Borghini hanno condiviso un atteggiamento basilare nel rapporto tra arte e mercato, tra tutela e gestione dei beni culturali: l’atteggiamento della “elasticità”. E non a caso proprio il dipinto Elasticità di Umberto Boccioni (1912), proveniente dalla collezione Jucker e oggi conservato al Museo del Novecento di Milano, è stato scelto come copertina del libro e fa da punto di partenza del racconto di Porro, che aveva curato personalmente la transazione dal privato al pubblico di questo mirabile capolavoro, assieme al resto della collezione Jucker. Fu una vera vittoria per Milano e per le sue collezioni, in cui Borghini, Porro (ma anche Guido Artom e Roberto Mazzotta) ebbero un ruolo decisivo.
Fin delle prime pagine di queste memorie, il lettore comprende bene quali siano i due nemici principali dell’“elasticità”: primo, l’accademismo di chi disprezza l’economia, secondo, il conservatorismo di tanti storici dell’arte e soprintendenti. Porro, però, ha saputo abilmente dribblare sia l’accademismo e che il conservatorismo, preferendo compiere tratti di strada umana e professionale con alcune delle più grandi e innovative personalità delle cultura italiana dell’ultimo Novecento, da Gianfranco Ferroni a Giovanni Testori, da Carlo Volpe a Federico Zeri, da Giuliano Briganti a Paolo Volponi.
I ricordi dedicati a questi sei personaggi sono tra le parti più intriganti del libro. Con Gianfranco Ferroni, Miro Porro condivise gli anni spensierati della giovinezza e il suo primo approccio con il travolgente mondo dell’arte. Miro (che già possedeva una Fiat Giardinetta) era allora l’unico “abbiente” di un giro di amici-artisti decisamente squattrinati e bohémien che - per racimolare qualche soldo - arrivavano a far morsicare dai cani i loro quadri nella speranza di riscuotere modesti premi d’assicurazione (ma gli assicuratori difficilmente ci cascavano).
Giovanni Testori si avvicinò a Finarte fin dagli esordi della società. Aveva una cultura vasta e non accademica, un fascino magnetico e un’irrequieta passionalità. Tutto questo affascinò Porro. Ma l’idillio finì presto, in particolare dopo un’epica scenata di Testori che pretendeva di riscuotere le percentuali degli utili dei quadri da lui segnalati a Finarte prima che questi venissero messi in vendita.
Decisamente meno impegnativo è stato il rapporto umano e professionale con Carlo Volpe, di cui Porro ricorda le doti di gran conoscitore e di uomo affabile, seppur con un punto debole: non sopportava che le sue attribuzioni venissero messe in discussione da altri.
Ma Volpe avrebbe presto dovuto fare i conti con la “concorrenza”: all’orizzonte già si stagliava la gigantesca personalità di Federico Zeri. Nel capitolo a lui dedicato, Porro racconta di aver conosciuto Zeri in occasione della dispersione della collezione Lutomirski a Milano, comprendente una quindicina di fondi oro. Zeri, di passaggio in Finarte, aveva rapidamente visionato la collezione e, in soli cinque minuti, aveva azzeccato tutte le attribuzioni delle opere. Qualche tempo dopo fu addirittura in grado attribuire correttamente un quadro del Quattrocento attraverso la sola descrizione fatta da Porro per telefono. È chiaro che Porro fece di tutto per non farsi sfuggire un consulente di questa levatura, e se ne assicurò fedeltà ed eterna riconoscenza finanziandolo (su suggerimento di Francesco Micheli) in un frangente in cui lo studioso si era trovato in difficoltà economiche. «Conversatore coltissimo e molto divertente, erudito di stampo ottocentesco, Zeri racchiudeva un giacimento di risorse che ne facevano un intellettuale al di sopra della media». Questo il giudizio di Porro.
Altrettanto grato è il ricordo per Giuliano Briganti, che Porro conobbe nel 1960 e da lui venne spinto ad aprire la sede romana di Finarte (1977). Meno scoppiettante di Zeri ma non meno geniale, Briganti ebbe i doni di una pacata ironia, di un’amabile arguzia e soprattutto - rara avis – di una grande serenità.
Porro conclude la carrellata dei ricordi con Paolo Volponi, lo scrittore, collezionista e uomo di sinistra «con idee avanzate», al quale Miro offrì una direzione quando Rizzoli e Finarte formarono una società congiunta. Ma un legame ben più drammatico avrebbe segnato le vite di Volponi e di Porro. Entrambi saranno colpiti dalla tragica perdita di un figlio: Roberto per Volponi e Alessandro per Porro. E proprio ad Alessandro (mio compagno di università) il libro è dedicato.