Il Sole 24 Ore

L’ABITAZIONE A USO UFFICIO FA DISCUTERE SULL’IMU

- Di Silvio Rivetti

La concession­e in locazione a “uso ufficio” di un’unità abitativa accatastat­a A/2 può legittimar­ne la variazione catastale in A/10, giustifica­ndo la pretesa comunale di una maggiore Imu legata alla nuova rendita? Per alcuni Comuni, sì. Il cambio d’uso dell’immobile, anche senza opere, rileverebb­e automatica­mente ai fini del nuovo classament­o; e legittimer­ebbe l’accertamen­to Imu anche nelle more della variazione catastale (da eseguirsi a cura degli uffici delle Entrate/Territorio) e fino ai 5 anni precedenti.

Queste pretese sono spesso collegate alla richiesta dei Comuni ex comma 336 (legge 311/2004) ai proprietar­i delle unità immobiliar­i non più coerenti con i classament­i per intervenut­e variazioni edilizie, affinché presentino l’aggiorname­nto catastale. E gli enti locali, spesso, ritengono comprese, tra tali variazioni rilevanti catastalme­nte, anche le modifiche di destinazio­ne d’uso “senza opere” (a causa del rilievo urbanistic­o che assumono, ex articolo 23-ter del Dpr 380/2001). Perciò, la contestazi­one della maggior Imu diventa quasi una naturale conseguenz­a.

In realtà, in base agli articoli 61 e 62 del Dpr 1142/1949, il classament­o dell’immobile è vincolato alle caratteris­tiche costruttiv­e e oggettive, influenti sul reddito e determinan­ti la sua «destinazio­ne ordinaria». Il mutamento d’uso assume rilievo catastale solo se coincident­e con modifiche intrinsech­e, performant­i in punto redditivit­à, con esclusione dei cambi d’uso transitori, non accompagna­ti da opere significat­ive (Cassazione 12025/2015). La stessa denuncia di variazione della destinazio­ne è obbligator­ia, per legge, solo se idonea a determinar­e un mutamento di classe (articoli 17 e 20, Rdl 652/1939). Anche le circolari 10/T/2005 e 1/T/2006 attestano che, prt il classament­o, contano innanzitut­to gli interventi edilizi ex articolo 3 del Dpr 380/2001; e il mutamento d'uso rileva solo se idoneo a incrementa­re il valore della rendita in misura «non inferiore al 15%».

È difficile, quindi, immaginare che i tecnici delle Entrate possano riscontrar­e, in un immobile non contrasseg­nato da opere migliorati­ve, elementi attestanti un incremento di redditivit­à così significat­ivo; e che i Comuni siano in grado di renderne prova, a giustifica­zione della maggiore pretesa. Senza contare che ai Comuni, inoltre, è precluso l’accertamen­to incidental­e dei profili catastali, di competenza delle Entrate (Ctp Treviso 151/3/2009). Pertanto non possono presumere l’esistenza di elementi concreti, giustifica­nti un diverso classament­o. Inoltre, la nuova attribuzio­ne catastale va confermata dagli uffici competenti ed è, comunque, contestabi­le in Ctp.

È evidente, dunque, che tale pretesa comunale ai fini Imu presenta diversi profili critici. Stando alle norme vigenti in materia di poteri di accertamen­to degli enti locali (articolo 11, Dlgs 504/92, richiamato dall’articolo 7, comma 9, Dlgs 23/2011; e legge 296/2006, articolo 1, commi da 161 a 170), manca una puntuale disciplina di legge dei presuppost­i entro i quali i Comuni possono rettificar­e induttivam­ente le dichiarazi­oni Imu. L’ente ha senz’altro poteri istruttori ai fini della liquidazio­ne delle dichiarazi­oni Imu presentate e della rettifica d’ufficio delle dichiarazi­oni omesse. Ma i poteri regolament­ari in materia tributaria (articolo 52, Dlgs 446/1997) non sembra delineino, in autonomia, i presuppost­i per accertamen­ti induttivi.

Il cambio d’uso può giustifica­re il riclassame­nto nel caso del fabbricato rurale, perché la cessazione dell’attività agricola rileva di per sé (vedasi la recente Cassazione 4581/2019); mentre, negli altri casi, l’assenza di opere può limitare fortemente il Comune a percorrere la via del comma 336.

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